Il secondo posto di Razzoli a Wengen è l’occasione per il racconto di Salvatore Maria Righi sull’Unità del marzo 2010, per l’oro olimpico di Vancouver. Un racconto che ha tanto di emiliano.
Giuliano Razzoli oro a Vancouver 2010
Salvatore Maria Righi
Razzoli Giuliano di Razzolo, come una filastrocca, a due schioppettate da Villa Minozzo, che «ci abitano cinquanta persone, se le conti due volte». Il Razzo col cognome prima del nome, come fanno quelli sulla via Emilia, e con una medagliona al collo tutta gialla e grande così, che praticamente non se l’è più tolta da quando glie l’hanno infilata alla premiazione. Erano 22 anni che un italiano non usciva per primo dalle porte strette, praticamente come atterrare un’altra volta sulla luna. Era da Calgary 1988 che non vincevamo lo slalom alle olimpiadi, si vede che in Canada gli prende bene agli emiliani, e dopo Tomba è venuto Pantani, è venuta la Ferrari di Schumi, perfino la notte azzurra di Berlino, ma quel magone di prendere sempre gli schiaffi sugli sci era ancora lì che andava su e giù. Allora eccola la soluzione, il Razzo che è in piedi dalle sei e si mette finalmente a sedere alle undici di sera, con una fame che la vede e dopo aver salvato l’onore dell’Italia ai Giochi vorrebbe solo un po’ di tortellini e pace, altro che interviste. Ma il Razzo è uno che prende la vita come i pezzi di parmigiano nel piatto che gli portano, «non è proprio come il nostro, si vede che ha preso del caldo», uno alla volta, e masticare bene. Masticare piano, fermarti un po’ se serve.
Come quando aveva 16 anni e tra schiena, piedi e occhi era tutto da raddrizzare, lui avrebbe anche mollato tutto, se non era per suo padre. O come, quando finalmente addenta l’affettato, gli portano un telefono e dall’altro capo c’è Roma, il Quirinale. «Presidente, mo mi dia pure del tu, sono io che devo darle del lei casomai» fa il Razzo, mentre Giorgio Napolitano gli fa i complimenti e gli chiede della gara, e lui diventa anche un po’ rosso, si abbassa un po’ sulla sedia, forse comincia a realizzare in che razza di guaio si è messo, a vincere davanti a tutto il mondo. «È stata dura, non me l’hanno mica regalata», racconta al presidente che gli chiede con quanto distacco ha vinto: «Due decimi, sì, quanto basta diciamo». Ecco, quanto basta. Sono così dalle sue parti, nell’Emilia che accompagna il Po in mare cambiando paesaggio, ma mai la pelle. Fanno le cose che devono fare senza mettere i manifesti, quando le finiscono, e ogni volta che capita una capriola si rimettono in piedi, non è successo mica niente. A maniche rimboccate e se possibile senza prenderla troppo seria, che sorridere aiuta. Un po’ come quelle teste quadre della Bassa, che gli dicono così perché sono un po’ cocciuti diciamo, ma poi nemmeno se la prendono più di tanto. Il Razzo è uno che bada al sodo e quando gli chiedono il segreto dell’appennino, non ci pensa nemmeno un attimo: «Pochi ma buoni, questo è sicuro».
Prima di lui Tomba, e prima ancora Zeno Colò: cinque medaglie d’oro non le hanno mai prese nemmeno quelli delle vette alpine, per dire. Il Razzo che ha vinto ma non vuole stravincere, «la mia carriera mica finisce qui, ma sono sempre stato uno tranquillo, anche quando facevo fatica a qualificarmi per le gare di coppa del mondo. Sono abituato a tenere i piedi per terra». C’è da crederci, col 47 di scarpe che si ritrova, e quegli occhi che vedono tutto ma prendono solo l’essenziale, come passare tra due paletti piantati nella neve, su una parete ripida. Il Razzo che racconta della mamma pittrice e dei genitori che «sono sempre stati senza problemi con me, mica come quelle famiglie che sono ossessive coi loro figli, a costo di non essere sportivi piuttosto che non eccellere, invece i miei non mi hanno mai colpevolizzato». Si vede che anche a Razzolo sono arrivate le voci di un mondo impazzito che sbaglia tutti gli scaffali per riporre le cose e ha sempre una maledetta fretta, mica come lui che «non avevo mica le montagne sotto casa», e per diventare un campione ha passato più tempo in macchina che sulla neve, ma alla fine è arrivato.
È arrivata anche una giornata come questa che è un po’ come nella canzone di Ligabue. La macchina è calda e dove ti porta lo decide lei, canta il Liga che è delle sue parti, solo che lui al posto del volante aveva le racchette, ma sembrava lo stesso che gli sci venissero giù da soli sulla discesa di Creekside, col suo fan club là sotto ad aspettare, con lo zio missionario arrivato apposta da un altro angolo di mondo. Certe notti come questa che sei sveglio, o non sarai sveglio mai, fa la canzone, e mentre lui passa da un autografo a una pacca sulla spalla a una foto ricordo a uno sbaciucchiamento, fuori ci sono centinaia di canadesi che sembrano anche loro gente da via Emilia e dintorni, il sabato sera di Vancouver tra l’odore di patatine fritte, le bandiere con la foglia d’acero, le chitarre elettriche, il jazz e il casino di Hamilton Street, potrebbe essere benissimo un posto qualsiasi tra Castelnuovo, Rubiera e Reggio. Chissà quante notti come questa ha passato il Razzo, dopo una giornata di allenamenti duri, con la fidanzata, gli amici, a mangiare parmigiano e berci sopra come si deve. Sentirsi padrone di un posto che di giorno non c’è, come dice il Liga, perché il suo posto nella storia c’era già, e lui semplicemente se l’è preso pezzo a pezzo. Lui che è abituato a mettere le cose al loro posto e a raddrizzare tutte le curve balorde, sulla pista come nella vita.
«Come ti trovi in nazionale con i colleghi che vengono dall’Alto Adige e dalle altre montagne, vi sfottete un po’?». E lui, dritto al bersaglio come è sceso dal cancelletto al traguardo: «Adesso non è mica più come venti anni fa, parlano bene l’italiano, abbiamo un buon rapporto certo». Gli fanno anche i conti in tasca, «hai vinto 140mila euro e una borsa di studio da 30mila euro l’anno per quattro, sono 260mila euro», e il Razzo ci pensa sopra appena un attimo e poi «prima di tutto, come mi ha insegnato mio padre, ne facciamo conto, perché sprecarli non va mica bene. Io vivo coi miei, trovare una casetta tutta mia non sarebbe mica male». È fatto così, il Razzo, che tra la prima e la seconda manche era primo e ci rideva sopra, diceva «aspetta almeno che finisco» a chi gli diceva adesso come la mettiamo, mentre tutti gli altri avevano delle facce che sembravano di alluminio. «Sì, va bene le pressioni e le aspettative, ma quando stai lassù alla partenza mica ci puoi pensare a ste cose qui, senno non fai nemmeno due curve». Eccolo, il segreto che alcuni chiamano leggerezza dell’essere, zen, incoscienza, talento, predestinazione, freddezza, e altri non chiamano per niente, gli viene così e basta. Come Razzo, per esempio.
Pubblicato l’1 marzo 2010