L’ex ciclista, squalificato dodici anni per doping, ha scritto un libro in francese con l’intellettuale engagé Salvatore Lombardo: “Il mio, il romanzo di un poeta…”
«Non un banale libro di bici su di un campione o un ex dopato, ma il romanzo di un atleta che vuole presentarsi come un creatore».
«Un poeta. Un uomo che ha fatto della sua vita un poema epico. Con delle derive. Con dei dubbi. Con dei tradimenti. Con delle verità. Con delle menzogne». L’esagerazione è sempre stata la cifra stilistica di Riccardo Riccò come ciclista. E ora, grazie a un intellettuale italo-francese, anche come scrittore. Ma sarebbe troppo semplice stroncare in poche righe «Funerale in giallo. Le confessioni del Cobra» (Ac Editions, 12 euro, 114 pagine) come l’ultimo delirio di un ragazzo che voleva essere Marco Pantani: sui pedali, ma anche adesso, quando racconta le proprie pulsioni suicide.
Riccardo Riccò è stato trovato positivo all’Epo-Cera al Tour de France 2008 e nel 2011 ha rischiato di morire per una trasfusione di sangue fatta in casa. Da tempo non è più un professionista, ma ancora non sa cosa fare da grande. Nel 2015 proverà a fare il record di scalata sul Mont Ventoux (dopo la brutta caduta in allenamento su quelle strade) e sul Galibier: «E ha scritto una lettera a Vincenzo Nibali per sfidarlo a duello – racconta Salvatore Lombardo, coautore della biografia di Riccardo Riccò – perché lui è sempre stato più forte di Vincenzo Nibali. E anche il Contador di oggi farebbe fatica contro Riccardo. Ma parlo da appassionato, non da tecnico. Io sono un professore di Storia dell’arte che è diventato un esperto di questioni mediorientali, vissute sul posto. Ho scritto una trentina di libri, il prossimo sarà sulle primavere arabe. Ma questo resterà l’unico a sfondo sportivo». «Funerale in giallo» è un libro da leggere, ma è sgradevole: per alcuni errori nella traduzione dal francese, per i nomi sbagliati (Danilo Di Lucca…), ma soprattutto perché il punto di vista del Cobra disturba, distorce, a volte fa pensare, sempre con disagio. E le citazioni di Dante, Gabriele D’Annunzio, Giorgio De Chirico o Jack Kerouac non aiutano a stemperare questa sensazione, anzi. «Non è che di colpo Riccò si è trasformato in un intellettuale – spiega Salvatore Lombardo – ma è diventato curioso di pittura, letteratura e poesia. Lui non è fatto per il mondo di oggi, perché è totalmente privo di cinismo e non sopporta l’ipocrisia: nel ciclismo degli Anni 50 e 60 sarebbe stato un eroe».
E invece oggi è una vittima del sistema? A leggere le sue lamentele per la maxi squalifica di 12 anni in seguito al tentativo di autotrasfusione sembra di sì. Sembra anzi che Riccò non sappia nemmeno cosa è doping e cosa non lo è. Ma Lombardo – che racconta della sua amicizia con Arafat o con il comandante afghano Massoud – non ci casca: «Riccardo sa di essere colpevole, ma sa anche che se non prendeva certi prodotti non avrebbe potuto aspirare a vincere le grandi corse a tappe. Per lui la pulizia non c’è mai stata né ci sarà mai. E io sono d’accordo. Soprattutto quando vedo come viene trattato Lance Armstrong: a lui tolgono il Tour, ma senza prendere provvedimenti per i suoi avversari». Anche in Francia, pochi giorni prima di essere portato via dalla Gendarmerie e di trascorrere una notte in galera, Riccardo Riccò parlava di sé come di un Jimi Hendrix della bici: «Anche lui dopato-drogato. Ma nello sport crepiamo di ipocrisia. I tifosi vogliono dei campioni poeti o rock star, ma non vogliono il doping…». Forse perché incide sui risultati e non sulle doti canore, ma tant’è. Capire Riccò resta un’impresa. Ma almeno sul costante richiamo alla morte, sarebbe necessario saperne di più: «Riccardo si odia come Cobra – dice Lombardo – ed è affascinato da questa soluzione. O quanto meno lo è stato: direi che solo suo figlio Alberto e poche altre persone lo hanno salvato. Adesso lui non ha più niente, ha venduto la casa e gira con la Smart: l’unico lusso sono le bici che gli mette a disposizione la Cipollini. Tornare al mondo normale è un problema». Prima ci sarebbe il Ventoux da scalare, ma la Montagna da scalare sembra soprattutto quella interiore: «Sono disperato. Mi sento nella situazione del poeta D’Annunzio – discetta Riccò – quando è stato costretto a cedere la miracolosa e nebbiosa città di Fiume ripresa agli austriaci. (…) Ma chi si ricorda di Fiume? Chi si ricorda di D’Annunzio? Perché ci si dovrebbe ricordare del Cobra?» .