Questa è la storia di Alì, sarebbe dovuta uscire l’anno scorso su un quotidiano nazionale. All’epoca pareggiò il match per l’Europeo, a primavera nella rivincita si è arreso misteriosamente nel quarto round. Ora l’intervista è stata aggiornata sempre grazie a Biagio Bianculli.
Vanni Zagnoli
In Italia era arrivato come vu cumprà, ha pareggiato l’incontro per diventare campione europeo. Per Muhammad “Ali” Ndiaye il primo assalto alla corona non è andato bene, contro Christopher Rebrasse era favorito, ma il francese l’ha messo sotto in modo netto, per stessa ammissione del proprio clan, eppure il verdetto è stato di parità: un giudice ha premiato Rebrasse con 7 punti di margine, un altro ha visto il pari e il terzo addirittura il successo di una lunghezza per questo senegalese trapiantato in Toscana. Poi la resa improvvisa nella rivincita.
“Quel sabato notte dell’anno scorso – racconta – non ero io, sul ring di Brindisi. Non ho sprigionato la mia boxe consueta, comunque accetto sempre il verdetto maturato fra le 4 corde”.
A differenza dei transalpini. All’angolo uno ha fatto il gesto dell’ombrello, un altro alzava il dito medio.
“Non c’entro con la decisione della giuria”.
Vi siete riaffrontati a Pontedera ma lì è andata ancora peggio.
“Però non mi arrendo, perchè so di avere talento”
Le resta l’orgoglio di combattere da italiano, grazie al matrimonio con Federica Sabella, celebrato il 12 agosto 2002.
“Incontrai per caso questa ragazza siciliana in treno, a Firenze Rifredi. Sono passati 13 anni, era il pomeriggio del 2 gennaio. Lei era diretta a casa, a Sciacca, in provincia di Agrigento, io andavo a vendere al mercato settimanale di Pistoia. Eravamo seduti di fronte”.
La prese in simpatia in quanto venditore ambulante?
“No, avevo tutto dentro un borsone, Federica neanche potè intuire il mio lavoro. Doveva cambiare convoglio, scese e mi invitò a pregare Dio perchè trovasse un brav’uomo. Annotai il suo numero di telefono su un foglio giallo e aspettai che il suo treno partisse”.
Vi bastarono 8 mesi per il matrimonio…
“E un paio d’anni per ottenere la cittadinanza. Senza Federica sarei ancora in strada, a vendere quel che capita. Quattro anni fa è arrivato il nostro primo figlio, Moussa, il 2 luglio 2012 anche Maria Aissatou”.
Ma lei com’è diventato pugile?
“Seguendo la tradizione familiare. Papà Moussa per 5 volte fu campione senegalese, era grande amico di Cassius Clay e allora mi chiamò con il suo nome da musulmano: me lo fece incontrare a soli 5 mesi, a Pikine, periferia di Dakar; era l’ottobre del ’79 e fu la sua prima visita in Senegal”.
Dieci anni più tardi Mohammed Alì tornò da ambasciatore Unicef per conto degli Usa.
“All’aeroporto lo accolsero i miei genitori, mi fece giocare in albergo. Gli ho inviato “La boxe nell’anima”, la mia biografia, mi ha risposto con una cartellina autografata e un giorno spero di ritrovarlo”.
Lei com’è diventato campione?
“Nove anni fa vinsi il titolo dilettanti a Maddaloni, terra pugilistica casertana. Nel 2005 sono passato professionista con il procuratore sbagliato, un romano mi ha fatto perdere stagioni preziose. Finchè è subentrato il manager milanese Salvatore Cerchi, con la sua Opi2000 valorizzò anche Giacobbe Fragomeni e Silvio Branco, che pure grazie al pugilato hanno trovato una ragione di vita”.
La famiglia Ndiaye è ancora in Africa?
“Quasi tutta, a partire da mamma Aissatou. Sono il maggiore di 5 sorelle e 6 fratelli, il più piccolo ha 8 anni. Uno faceva pugilato in Italia, si chiama Papa e a 25 anni si è trasferito a New York, fa il pizzaiolo e boxa ancora solo per passione. Un fratello, Bamba, l’ho perso nel 2012 a 28 anni, per un tumore, qui a Pontedera”.
L’ex ministro Josefa Idem vorrebbe offrire la cittadinanza per meriti sportivi. E’ d’accordo?
“Mi auguro che la sua proposta diventi legge e non solo per i campioni acclarati. Ci sono giovani di grandi qualità impossibilitati ad affermarsi per mancanza di possibilità economiche, una chance va dava a tutti, purchè si rispettino le persone e dunque le leggi. Anche a Pontedera ci sono pugili promettenti, in particolare albanesi, ma senza requisiti per la cittadinanza. Altri parlano l’italiano, si sentono del nostro paese eppure non possono arruolarsi”.
E’ di Pontedera Alessandro Mazzinghi, 75 anni, per 3 iridato, nei superwelter.
“Vorrei imitarlo, a 35 anni non è tardi. L’ho conosciuto e mi incita sempre, al pari del sindaco Simone Millozzi e dell’assessore Matteo Franconi, che coinvolgono imprenditori lucchesi. Il tedesco Abraham è campione del mondo Wbo, mentre il camerunese Bika, naturalizzato australiano, ha conquistato la corona Wbc, l’Ibf e la Wba sono in mano all’inglese Frock”.
Quando smetterà?
“Non ho deciso, eppure penso già al dopo, come vigile del fuoco: è un bel lavoro e permette di essere utile agli altri, dal 2005 sono volontario a Pisa, al punto che il comandante provinciale Marco Fredda mi permette di combattere con il logo vvff. E con questo corpo vorrei aiutare i bambini africani: in Senegal le inondazioni sono frequenti, servono di interventi di emergenza, non sul piano sociale”.
Come coniuga il professionismo e l’impegno da pompiere?
“Posso rispondere sino a 5 richiami l’anno, ciascuno da 20 giorni, per un compenso di mille euro per ogni periodo. Capita di saltarne uno o due a stagione, quando devo dare il massimo negli allenamenti. Del resto si fatica a vivere di pugilato, solo un grande titolo porterebbe una borsa notevole: il nostro sport non ha pubblicità, solo Sportitalia e Raisport trasmettono incontri, il mercato è bloccato”.
A 33 anni la signora Federica Ndiaye fa la mamma?
“Intanto frequenta un corso di sartoria, in futuro andrà a lavorare”.
Parla con accento toscano, è diventato cattolico?
“No, resto musulmano”.
E intanto è stato nominato ambasciatore in Africa per i disabili.
“Questa è la mia vera realizzazione”