di Vanni Zagnoli
Un po’ Justin Wilson se l’aspettava. Aveva fatto scrivere che, in caso di morte, avrebbe donato gli organi e così è avvenuto.
Da 7 anni correva in Indycar, era stato vittima di incidenti per tre stagioni di fila, dal 2011 al 2013. Riportava regolarmente fratture assortite, ma ogni volta tornava a gareggiare: “Nel mio mestiere si corrono rischi – raccontava – e pure mia moglie Julia ne è consapevole”.
L’ultima corsa è stata due giorni fa, a Pocono, in Pennsylvania, negli Stati Uniti.
Il pilota britannico aveva 37 anni, correva a contratto, era per sole sette gare, con il team Andretti autosport.
E’ stato colpito sul casco da un pezzo del musetto di Sage Karam, finito sul muro poche centinaia di metri più avanti.
Wilson aveva perso conoscenza e lì anche il controllo della vettura. E’ terminato pure contro il muro che delimita la pista. La sua Andretti veniva poi alzata da una gru, mentre l’elicottero lo trasportava al Cedar Crest. Il trauma cranico è sembrato subito troppo grave perchè potesse sopravvivere e il decesso è avvenuto nella notte.
Wilson lascia anche le figlie Jane Louise e Jessica Lynne e il fratello Stefan, altro pilota.
Era stato in F1 nel 2003: con la Minardi disputò 11 gran premi e spesso arrivò davanti alla prima guida, l’olandese Jos Verstappen; gli ultimi 5 gp furono in Jaguar, con cui raccolse l’unico punto arrivato nel mondiale.
Appena un mese fa era scomparso Jules Bianchi, pilota di F1 rimasto in coma per 9 mesi.
Justin andava forte, a suo modo come l’omonimo Gatlin, velocista americano. Wilson non era un campione, ma correva per vivere. O forse viveva per correre.