E’ scomparso don Aldo Rabino, padre spirituale del Torino. Qui pubblichiamo l’integralità del colloquio telefonico realizzato nel 2012 e in parte inedito. Solo i tempi sono aggiornati.
Vanni Zagnoli
Ne “Il mio Toro, la mia missione”, edito da Priuli e Verlucca, don Aldo Rabino racconta al giornalista Mediaset Beppe Gandolfo i 40 anni come padre spirituale della squadra del cuore. A 76 seguiva ancora il Torino, era il più longevo d’Italia e visitava regolarmente il ritiro di Leinì.
“Vado alla vigilia di ogni gara casalinga – raccontava il sacerdote -, la società è molto sensibile. Dall’84, con il ritorno di Gigi Radice in panchina, abbiamo l’usanza della messa nel prepartita, ne avrò saltate 7, esclusi i periodi in Sudamerica, nelle missioni”.
Che rapporto instaura?
“Avrei bisogno di tempo, negli ultimi anni il turnover è diventato incredibile. Tanti della prima squadra non arrivano più dal settore giovanile, manca quel cordone ombelicale. Dal 2005 sono cambiati 9 allenatori, 7 direttori generali e 120 giocatori, così gli incontri con i singoli sono più sporadici: il rapporto informale e fuori dagli schemi”.
Chi è più sensibile ai temi religiosi?
“Dapprima i difensori Natalino Fossati, Angelo Cereser e Giorgio Puia e i centrocampisti Aldo Agroppi e Rosario Rampanti. Nella squadra dello scudetto, Renato Zaccarelli, Eraldo Pecci, Claudio e Patrizio Sala, Roberto Salvadori, naturalmente Paolino Pulici che ha voluto curare la prefazione, poi Agatino Cuttone”.
Negli anni ’80, anche Antonio Comi, ora direttore generale.
“Inoltre Roberto Cravero, Silvano Benedetti e Luca Marchegiani: il brasiliano Leo Junior si occupava della prima lettura, ci teneva tantissimo, anche lo spagnolo Martin Vasquez era molto coinvolto, senza dimenticare Dino Baggio, che pure a 20 anni lasciò il Toro. Fra quanti ottennero la penultima promozione in A, dopo il fallimento del 2005, Massimo Taibi, Andrea Ardito e Oscar Brevi. Fra i tecnici Giancarlo Camolese”.
Accompagnò la squadra pure in trasferta.
“A Roma, nell’88, i ragazzi avevano due ore libere, era metà ottobre e ne approfittammo per visitare la basilica di San Pietro. Diego Fuser toccò il piede consumato della statua proprio di San Pietro, dicevano portasse fortuna, ma la sua non fu scaramanzia: l’indomani fece doppietta, vincemmo 3-1 e da allora chiedeva a me di toccargli il piede…”.
Nel settembre 2011, Fuser perse il figlio Matteo, da tempo malato.
“Aveva sofferto tanto, assieme alla moglie Orietta, di una sensibilità unica nel gestire una situazione tanto delicata. Diego aveva abbandonato il professionismo 8 anni fa, a 35, proprio per dedicarsi a lui: a 46 anni gioca ancora fra i dilettanti”.
Fabrizio Lorieri rischiò di lasciare la porta sguarnita, nel derby dell’aprile ’87, pareggiato 1-1.
“Era nato il suo primogenito, eravamo in ritiro ad Asti, smaniava per vederlo. Lo accompagnai io, sapendo di andare in panchina non voleva più tornare, lo ripresi con la forza: a metà ripresa Renato Copparoni si procurò una profonda ferita, perciò subentrò, per fortuna l’avevo riportato allo stadio, per affrontare la Juve”.
Tanti giocatori la interpellano per i momenti chiave.
“Tre estati fa sono stato in Veneto, a sposare Cristian Pasquato, ora rientrato alla Juve, in passato battezzai a Superga i figli di Stefano Sorrentino (portiere del Palermo, ex granata, ndr) e i nipoti dell’ex presidente Orfeo Pianelli. Sempre sulla collina sposai il mancino Vincenzo Sommese”.
Ha mai “interferito” nelle scelte di un presidente?
“A Mario Gerbi quasi consigliai di cedere all’Inter Cravero e di utilizzare il ricavato per rifare il Filadelfia: avevamo Roberto Fogli, ora allenatore degli allievi nazionali, per sostituirlo… Con Urbano Cairo c’è stata quasi una scommessa, sempre per sistemare lo stadio mito”.
Dopo Orfeo Pianelli, che lasciò nell’82, ha conosciuto 10 presidenti.
“Lui era un buon papà, per i giocatori. Ricordo Gian Mauro Borsano più distaccato, con un legame meno profondo. A gennaio è scomparso Roberto Cimminelli, che difendevo: il suo Toro 7 anni fa venne fatto fallire, salvarono altre realtà più indebitate”.
Nel 2000 aveva fatto presidente Attilio Romero, 32 anni dopo il suo dramma.
“Era tifoso granata, a 20 il destino lo fece trovare sulla strada di Gigi Meroni, sarebbe bastato mezzo metro di meno, per evitare l’incidente mortale del ’67”.
Peraltro la storia granata è costellata di tragedie.
“Giorgio Ferrini restò una vita al Toro, esclusa la stagione a Varese, si ritirò appena 11 mesi prima dello scudetto, lo raggiunse da viceallenatore ma nell’ottobre del ’76 fu portato via da un aneurisma”.
Qualche straniero è diventato mito, pur non avendo vinto.
“L’argentino Patricio Hernandez viene da una famiglia non abbiente e da un oratorio salesiano, è molto serio. L’austriaco Toni Polster è gioviale, portava sempre una grande croce al collo, per dichiarare la sua fede; l’olandese Wim Kieft è tanto educato. Il brasiliano Luis Muller è un indio strano, potenzialmente grande giocatore, gli è mancato qualcosa sul piano mentale. Il bosniaco Haris Skoro aveva il temperamento degli slavi”.
Nel ’93 Gianluigi Lentini rischiò la vita in un incidente, da un anno era passato al Milan.
“Con lui c’era un rapporto forte, iniziato da ragazzino. Servono valori, per riprendersi psicologicamente: il mondo del calcio è difficile, incidono preparazione culturale e famiglia”.
I giocatori che rapporto hanno con i soldi?
“Vogliono far carriera, magari gli gira male, un infortunio e per 1-2 stagioni escono dal giro che conta”.
Don Rabino, ha un rimpianto?
“Avrei potuto fare di più per l’ex centrocampista Dante Bertoneri, nel dopo carriera. I momenti più esaltanti restano lo scudetto del ’76 e i molti titoli giovanili. Sino al ’91 c’era Sergio Vatta, molto esigente: chiedeva sacrificio e rispetto delle regole”.
Bella intervista. Complimenti
Mille grazie, Simone, un abbraccio a te e famiglia