Mi era sfuggita completamente l’opera del collega di Carlino Reggio, Andrea Ligabue, classe ’67, della Rosta Nuova. Una sorpresa assoluta, naturalmente maturata tramite Nicola Penta, consulente visto anche a Reggio, di Luciano Moggi.
L’ho visto per caso alla libreria del centro commerciale Meridiana, a Reggio. Questa è la recensione di Andrea Schianchi sulla Gazzetta.
Avvertenza prima dell’uso: le autobiografie, tutte le autobiografie, anche quelle di Napoleone o di Winston Churchill, raccontano soltanto una parte della verità, quella dell’io narrante. Manca, ovviamente, il cosiddetto «controcanto», l’altra faccia della medaglia. E’ così anche per «Il pallone lo porto io» di Luciano Moggi (con Andrea Ligabue) in uscita per Mondadori. Il calcio, le trattative di mercato, le polemiche, i retroscena che riempiono le 192 pagine del libro sono, chiaramente, «le verità di Moggi», ed è giusto sottolinearlo soprattutto perché vengono chiamati in causa altri personaggi che non hanno diritto di replica (o di rettifica).
Quaranta capitoli più 100 domande e risposte: cìè tutto l’universo di Lucianone. E ci sono gustosi episodi e giudizi taglienti. Il segreto. Si parte dalla madre di tutte le polemiche, 26 aprile 1998, il rigore non concesso dall’arbitro Ceccarini per il fallo di Iuliano su Ronaldo in Juventus-Inter. «Riguardandolo, a distanza di tanti anni, lo avrei fischiato», ammette Moggi. Che poi aggiunge: «Ma lo scandalo vero fu la reazione degli interisti. Veemente. Sconsiderata. Provai veramente disgusto».
Segue una lunga polemica sul falso passaporto di Recoba e poi si arriva al cuore del problema: Moggi ammette, come già rivelato da Sandro Mazzola, di aver firmato un contratto con il presidente Moratti nell’ottobre del 1998. «La carta, ovviamente, è intestata, e ci sono timbro e firma del presidente Moratti».
E’ custodita nella cassaforte di casa Moggi. Quell’accordo, secondo l’ex dirigente, saltò per colpa di… Moriero. Proprio così: Moratti chiese a Moggi (che non era ancora alle sue dipendenze) di fargli un favore e di vendere Moriero. Moggi si adopera, piazza il giocatore al Middlesbrough e poi scopre che nel frattempo Moratti ha fatto firmare a Moriero il rinnovo del contratto.
Apriti cielo! Moggi sbotta: «Non posso dirle me ne vado dall’Inter perché ufficialmente non sono un dirigente nerazzurro, ma che non verrò mai a lavorare per lei, questo sì, glielo posso dire». Amore mai sbocciato. E questo mancato rapporto, nella vicenda Calciopoli, viene alla luce.
Moggi si dilunga a spiegare le sue ragioni, si difende, getta ombre sui comportamenti di altre società (Inter e Milan), ma poi, a fine capitolo, è costretto a piegarsi e a scrivere della sentenza di condanna arrivata il 17 dicembre 2013. «Ma non mollo. Ora andremo in Cassazione».
Il colpo Non mancano le curiosità per gli appassionati di calciomercato. Moggi rivendica il «ri-acquisto» di Del Piero (nel 1994 metà del cartellino era del Parma) in cambio della cessione di Dino Baggio («una pippa»), però non ha parole tenere per Alessandro. Talento sì, bandiera no. «Le bandiere non prendono palate di euro a stagione, con la firma sul contratto che arriva solo dopo trattative estenuanti».
E, già che si sta parlando di eroi juventini, ecco qualche parolina su Zidane. «Un genio, non un leader. Alla Juve, in campo e negli spogliatoi, il faro era Antonio Conte». Con comprensibile gusto ricorda l?acquisto di Zizou: andò a vederlo a Bordeaux, fece meraviglie e regalò due assist-gol a Dugarry. «Io presi Zidane, il Milan Dugarry. Queste son soddisfazioni…».
Tra un elogio a Capello e uno a Lippi, tra una carezza ad Ancelotti («persona splendida, ragazzo buono, un buono, fin troppo per il mondo del calcio») e un ringraziamento a Ferlaino («il migliore di tutti»), c’è spazio anche per i ricordi, per gli anni di Napoli, per l’esperienza alle Ferrovie dello Stato, per la fede, per la famiglia e per la campagna elettorale (mai fatta, solo promessa, dice lui) a favore della Democrazia Cristiana in cambio di una Lambretta.
L’errore Moggi ha la memoria lunga e non tralascia nemmeno le virgole. La famosa sfida Perugia-Juve del 2000, giocata in un acquitrino, ancora non l’ha digerita. «Partita e scudetto. Persi per colpa dell’arbitro Pierluigi Collina. Una delle più vergognose pagine del nostro calcio. Ma quel giorno sbagliai io. Avrei dovuto ritirare la squadra: prenderla e riportarla a casa».
E poi, siccome la dietrologia non è peccato, ecco il seguito nel racconto di Moggi: «Nel maggio 2000, magari rideva anche il Milan, visto che il suo avversario storico, la Juventus, aveva perduto il campionato. E magari in cuor suo rideva anche Collina, viste le telefonate intercettate ed emerse nel processo di Calciopoli, in cui era palese l’amicizia tra il fischietto viareggino e i dirigenti milanisti». Nemmeno il passare del tempo aiuta a spegnere i fuochi, questa è la verità. Evidentemente il calcio è ancora una faccenda troppo seria per essere trattata con ironia e leggerezza.
Andrea Schianchi, Gazzetta dello Sport, 08 maggio 2014