Da Libero di 4 anni, la morte di Morosini raccontata da Biasin. Un pezzo molto particolare: “Piermario, l’ultimo che doveva morire”

morosini

(v.zagn.)  Quattro anni fa, la morte di Morosini. Qui riportiamo un pezzo molto particolare, discutibile, con la caratterizzazione abituale di Biasin, di Libero. Sicuramente coinvolgente, ma ai limiti, trattandosi di una tragedia. Trovabile anche nella rubrica di Fabrizio: “Tanto Calcio, poco Fosforo, molto Stronzio”.

di Fabrizio Biasin

Diavolo di un calciatore, l’ha fatta grossa. E dire che fino a ieri era solo un essere umano infestato dalla sfortuna, niente di più. Mica per la scarsa propensione al gol, sia chiaro. Quella conta niente se non hai papà e mamma, se tua sorella è handicappata, se tuo fratello era talmente disperato che ha preferito levare il disturbo prima del tempo. Destino infame quello dell’«Indios», che poi era Piermario Morosini, giocatore del Livorno con un nome da appello in classe. «Marchetti, Mori, Morosini…». E lui: «Presente!». Un nome qualunque, da cinque in pagella, magari cinque e mezzo. Finisce in prima pagina solo perché è morto sabato pomeriggio in diretta tv. Su un campo di pallone poi, roba per pochi, stramaledetti atleti. Fino a ieri lo conoscevano i tifosi delle squadre per cui tirava pedate e qualche ultrà avversario.

Lo insultavano, perché così si fa con quelli che indossano la maglietta sbagliata. Piermario Morosini ha un nome da prima pagina oggi, domani forse, dopodomani neanche per idea. Con la sua storia ci faranno un film, anzi no, perché è la sceneggiatura più triste del mondo e le storie tristi non piacciono alla gente, disturbano il sonno e la digestione e al cinema ci vuole il lieto fine, per Dio! Oggi però gli va di lusso perché è domenica e piove, e quando piove la gente non è che esce a fare la scampagnata, sta a casa a guardare la tv e in tv parleranno tutti di lui e diranno quanto era bravo e buono, persino quanto era bello e puoi giurarci che era davvero simpatico, brillante, unico, l’amico che tutti avrebbero voluto alle elementari quando si prova a diventare grandi insieme. E invece a essere cinici bisogna dirla tutta: Piermario Morosini aveva la faccia normale del tizio che incroci sul tram, al bar quando bevi l’amaro, quella che te ne freghi bellamente, al limite la faccia da buono e basta, mica quella sgargiante di Beckham e Cristiano Ronaldo, beati loro e rispettive fidanzate.

Anche Morosini aveva una compagna, Anna Vavassori, ma non pensate a una di quelle che vanno in discoteca a caccia del calciatore. Lei al massimo scriveva su Twitter del suo «Amurì», diceva che in campo l’aveva visto «dare ordine, entusiamo, voglia e luce… E come dicono i vecchietti “Oh! È forte questo eh!!”». Piermario e Anna: due persone semplici. E fa specie, ora, leggere quella citazione tratta da “Yellow” dei Coldplay: «Look at the stars, look how they shine for you…» (Guarda le stelle, guarda come brillano per te). Destino infame.

Piermario Morosini, guarda un po’, è stato fortunato solo in punto di morte: c’è chi crepa in un letto solo come un cane, c’è chi riesce a bloccare i campionati di calcio. Non il torneo della parrocchia: la serie A e la serie B e la serie C e giù fino agli scapoli che sfidano gli ammogliati. Imprese come queste le fa solo Madre Natura con la neve e il ghiaccio. Son rotture di balle che ti fanno urlare a denti stretti: «Senza calcio sarà sicuramente una domenica lurida e inutile». Qualcuno, in silenzio, lo maledirà, perché a fermare il pallone c’è riuscito un cristiano con la barba incolta, Morosini Piermario da Bergamo, mica Dio, Allah, Zeus, Visnu o Eupalla, immaginifica dea della sfera di cuoio.

Ma guai a volergli male: bisogna aver rispetto massimo per l’uomo più sfortunato del mondo, il tizio che a furia di insistere aveva conquistato la maglia azzurra dell’Under 21. Poi non era riuscito a fare il grande salto ma si era accontentato, perché non bisogna diventare per forza numeri 1 e provateci voi ad arrivare dove è arrivato lui, ultimo uomo che doveva crepare a prescindere da ogni legge terrena e divina. Piermario Morosini è stramazzato al suolo come un soldato al fronte e subito viene da smoccolare e mandare all’aria la messa della domenica urlando all’altare: «Cosa ci stai a fare tu con la “D” maiuscola se poi ti porti via l’unico essere che aveva diritto a un risarcimento?». E invece no, tocca solo star buoni, tocca guardare in silenzio lo speciale su Rai 1 e su Canale 5 e anche quello su Sky, perché in casi come questo non esiste il Telefono Amico che alzi la cornetta e trovi conforto immediato. In casi come questo puoi solo dire «è un mistero» a chi ti sta di fianco. Poi ci pensi prima di addormentarti e bestemmi in turco, ma con estrema attenzione, che magari qualcuno da qualche parte ha orecchie lunghe e domani l’infarto viene a te mentre mangi la piadina in pausa pranzo.

Son cose troppo grandi per chiunque: per un prete che dice Messa, per un filosofo, per l’Illuminato pronto a giurare «lascia fare, è la vita». Figurarsi per un calciatore sudato da far schifo. Son cose troppo grandi, ma c’è modo e modo di far svanire questa storia nella tipica sequenza “prima pagina, terza pagina, fogliettone, nulla”, perché qualcuno prima o poi dovrà dare una spiegazione se a diventare cibo per vermi non è il calciatore che va a puttane, ma Piermario Morosini, 25 anni, orfano di padre e madre, fratello straziato. «È un mistero» e non ci puoi fare niente, ma stavolta tocca insistere fino alla nausea, perché questo qui non voleva soldi e una Velina di fianco, o magari sì, ma non è questo il punto.

Il punto è che se a 15 anni ti ritrovi con i brufoli in faccia, un talento sconfinato nei piedi, ma vai in camera dei tuoi genitori e i tuoi genitori non ci sono, allora è giusto che diventi il più forte di tutti, che ti fai la macchina da centomila euro, che le donne tutte ti cadano ai piedi, che il calcio in definitiva ti dia quello che il destino ti ha tolto quando puzzavi ancora di latte. E invece Piermario Morosini di calcio è morto. Era a Pescara, su un prato neanche troppo verde. Ha provato a rialzarsi una volta, due volte, poi giù: come Cristo prima di finire in croce. E perdonateci se il paragone è sfrontato, ma a noialtri non viene in mente niente di meglio per rendere in immagini lo strazio riservato all’uomo più sfortunato del mondo. Ci viene in mente solo Gesù che cerca di stare in piedi, al limite una canzone che parla di un certo Nino che a 12 anni «cammina che sembra un uomo» e prova a diventare un calciatore.

Piermario c’è riuscito nonostante tutto. Fino al minuto 31 di Pescara-Livorno. «Solo sacrificando se stessi l’attimo di una vita diventerà assoluto». Era una delle sue frasi preferite, l’ha pubblicata sul suo profilo Twitter. Letta ora fa venir voglia di urlare.

A cura di Valmore Fornaroli

 

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