L’integralità dell’intervista a Carlo Recalcati, uscita venerdì 26 giugno.
Vanni Zagnoli
Il più grande personaggio nella storia del basket parmigiano è Charlie Recalcati. E’ stato confermato dalla Reyer Venezia, con cui è arrivato in semifinale scudetto, eliminato da Reggio Emilia dopo avere chiuso la regular season al secondo posto. A settembre compirà 70 anni, preparerà la 54^ stagione nel basket e per due è stato a Parma. Avvenne nel ’79, quando era giocatore e allenatore.
“Arrivai da Cantù – ricorda -, avevo 34 anni e probabilmente avrei potuto raccogliere qualche altro contratto importante. Parma però aveva un progetto interessante, con la famiglia Busatti, trasferita da Cremona alla città ducale. Lì c’erano il basket femminile, il calcio, che la faceva già da padrone, e poi il baseball e la pallavolo d’elite. Mi aveva stimolato il poter far qualcosa per la pallacanestro, dove bisognava effettivamente ripartire daccapo”.
E grazie a Parma era cominciata la sua carriera in panchina.
“Nel secondo anno mi venne chiesto di fare il giocatore e anche il coach. Inizialmente ero molto reticente, però trovai una persona che mi diede molta fiducia, il professor Antonio Jevolella, davvero per bene e concreto, e questo mi convinse a provare: nell’80-81 era tesserato lui come capoallenatore, quando feci io il doppio ruolo”.
Che Parma aveva trovato?
“All’epoca c’era la serie B d’Eccellenza e il palazzetto si riempiva unicamente nei derby con Reggio. Fu il decesso di Carlo Busatti a far chiudere il progetto”.
Ma come avvenne il passaggio dal campo ad allenatore?
“Fu per intuizione di Gian Matteo Sidoli, di Puianello, la frazione di Quattro Castella. Ci conoscevamo perchè arbitrava, all’epoca era il ds e poi venne soprannominato “il santone”. Io pensavo di fare l’assicuratore, avevo un’agenzia avviata a Cantù. Venne designato come allenatore Roberto Martini, poi giornalista a E’ Tv Bologna. A a 20 giorni dall’inizio del campionato rinunciò e allora Sidoli quasi mi obbligò ad accettare il doppio ruolo, facendomi prendere coscienza della mia attuale professione”.
Fu il primo con il duplice ruolo?
“No, all’epoca anzi era quasi consuetudine, oggi invece non è più possibile farlo: ci si può iscrivere al corso di allenatore solo quando finisce l’attività. Tra i primi a giocare e allenare contemporaneamente c’era stato Tonino Zorzi, a Gorizia: di recente ha compiuto 80 anni”.
In quegli anni era molto popolare la parmigiana Mabel Bocchi, centro di ruolo, poi arrivata alla conduzione della Domenica Sportiva. Nella sua squadra qualche parmigiano lasciò il segno?
“No, perchè venivano tutti da fuori, tranne alcuni giovani. Un ragazzo che aveva cominciato con me ha sfondato nel lavoro. E’ Luca Virginio, ora alla Barilla: era juniores e, quando si chiuse l’esperienza parmigiana, andò a Livorno, per vedere se poteva aspirare a fare il professionista. Capì che il basket non era la sua strada maestra, si dedicò allo studio e per 15 anni è stato negli Usa”.
Lei è più tornato a Parma?
“Quattro volte, per clinic per allenatori. E quando ero ct azzurro, venni inserito nel comitato scientifico dell’università di Parma, per un master sull’impiantistica sportiva”.
Ha conosciuto Devis Cagnardi, il terzo allenatore della Grissin Bon, da 15 anni abitante a Parma?
“Solo superficialmente, nei saluti prima e dopo le partite di semifinale playoff e di campionato”.
Che impressione le ha fatto Massimiliano Menetti, il tecnico di Reggio Emilia? A 24 anni si era preso il diploma di chef, alla scuola di Salsomaggiore Terme…
“Il campo sta parlando per lui, per i risultati ottenuti nell’ultimo quadriennio, con la promozione in serie A e l’Eurochallenge conquistata un anno fa, e per la qualità del gioco e delle scelte, offensive e difensive. Proprio contro la mia Umana, ha meritato di giocarsi questa finale con Sassari”.
Siamo 3-3, chi è favorito?
“Per quanto si è visto sinora, senz’altro Reggio Emilia”.
Menetti, fra l’altro è tra i pochi tecnici di serie A ad avere successo nella sua città di origine. A Palmanova del Friuli era solo nato…
“Nell’ultimo campionato, peraltro, c’erano anche Sacripanti a Cantù, Esposito subentrato a Caserta e Paolini, pure arrivato in corsa nella sua Pesaro. Mi hanno detto, peraltro, che Menetti è molto scaramantico…”.
E lei?
“Io non lo sono, solo quando giocavo avevo rituali che ripetevo, a livello mentale. Alle volte nello sport la scaramanzia è davvero esagerata, in questo senso ricordo quanto lo fossero i tifosi nei miei 5 anni di Reggio Calabria”.
Recalcati, vinse tre scudetti in tre città diverse. Per Reggio come per Sassari, sarebbe comunque il primo…
“La prima volta è sempre un fatto eccezionale, cambia la storia dello sport cittadino e il modo di essere. Io l’ho vissuto nel 2000 alla Fortitudo Bologna, con Gianluca Basile, arrivato da Reggio. Fu una grande gioia soprattutto per i tifosi: cantavano sempre “Non abbiamo mai vinto un c…” ma poi dovettero cambiare coro e da questo punto di vista ci rimasero male”.
A Varese si aggiudicò lo scudetto della stella, con Gianmarco Pozzecco, mentre a Siena visse pure il primo tricolore.
“Già, anche la prima volta alla Mens Sana fu speciale, nel 2004. Ma indimenticabile fu proprio il primo, a Varese, nel ’99. L’unicità resta per tutta la vita, anche quando si riassapora quell’emozione”.
E’ stato opinionista Rai negli scorsi playoff. Ha pure pubblicato articoli, in carriera?
“Raramente. Ho qualche difficoltà in più, a scrivere. Mi pesa maggiormente, rispetto all’opinione in voce”.
E’ vero che ha l’abitudine di delegare molto del lavoro?
“Sì, perchè possa migliorare. Dipende anche dalla qualità degli assistenti e in questo senso Walter De Raffaele, a Venezia, è eccellente. E all’Olimpiade del 2004, ad Atene, l’argento arrivò anche grazie al lavoro in palestra di Fabrizio Frates, che cominciò con me a Cantù; era alla guida dell’under 14 e lo chiamai in prima squadra. A Siena, sapevo che Simone Pianigiani, oggi ct dell’Italia, avrebbe raccolto la mia eredità dopo tre stagioni e allora nell’ultimo anno lo mandavo anche in conferenza stampa, io mi presentavo solo quando si perdeva e le sconfitte fortunatamente furono poche”.
A proposito, i 7 scudetti consecutivi di Siena non sono stati favoriti dagli stipendi pagati in nero, dall’ad Ferdinando Minucci?
“Io non posso che parlare bene, professionalmente. Abbiamo lavorato insieme per 3 stagioni, avevo già 58 anni ma furono formative. Sono stati commessi errori, verranno valutati. Minucci però era una persona capace e professionale, le sue vittorie sono state figlie della programmazione. Arrivò che la società era in grandissima difficoltà, nel ’92, non conosceva il grande basket e fece le sue prime esperienze, anche negative. Mai però aveva ripetuto l’errore per due volte, ha sempre tratto indicazioni, sino a costruire tutti quei successi. E con 5 anni d’anticipo aveva pianificato il lancio di Pianigiani come capo coach”.