Il Calciatore. I fratelli Gatto, calabresi da Trebisacce alla serie B. “I sacrifici e gli amici, lasciare casa a 14 anni, i maestri e i fratelli famosi”

Massimiliano Gatto ha 20 anni, ne dimostra almeno 3 di meno, gioca a Vercelli
Massimiliano Gatto ha 20 anni, ne dimostra almeno 3 di meno, gioca a Vercelli

Vanni Zagnoli

Prendiamo due fratelli quasi a caso, del sud, per raccontare come si diventa calciatori professionisti partendo in particolare da paesi non proprio ricchi.

Raccontiamo dunque la storia dei Gatto, di Trebisacce, provincia di Cosenza. Massimiliano insegue la salvezza in B con la Pro Vercelli, l’abbiamo incontrato a Modena, per la partita Carpi-Verona, assieme a un’amica in mixed zone: Martina Ferrari, 20enne reggiana, di Castelnovo Sotto, modella neodiplomata, in cerca di relazione con uno sportivo. Con il fratello maggiore, Leonardo Davide, 24 anni, parliamo invece al telefono: era al Vicenza, è passato alla Salernitana, altre due squadre lanciate verso una salvezza complicata.

Massimiliano era ritornato a salutare i vecchi compagni del Carpi, con cui aveva conquistato la serie A, contribuendo con 11 presenze. Ha 20 anni ed è uno dei molti calabresi della B, capeggiati idealmente da Fabio Ceravolo, di Locri, attaccante della Ternana.

“Fra i giovani – riflette – mi viene in mente Luca Garritano, cosentino del Cesena. E’ un grande orgoglio portare il nome della nostra regione in giro per l’Italia. Io sono al secondo anno da professionista, il primo è stato proprio al Carpi”.

Dove ha iniziato?

“A Corigliano Calabro, il paese di Gattuso, anche se non nella sua scuola calcio, e poi nel settore giovanile della Reggina, quindi tre anni alla Primavera del Chievo”.

La procura è della famiglia?

“No, anche mio fratello si affida a Mario Giuffredi, napoletano”.

Quanta gente la avvicina, al campo, sperando in grandi guadagni, restando accanto a lei?

“Tante persone orbitano attorno al calcio, anche a Vercelli, a me però non interessano perché mi fido del procuratore. Magari nel mondo del pallone ce ne sono tanti, vogliosi di far fortuna, frequentando i giocatori”.

Com’è il contesto, all’uscita dall’allenamento?

“C’è anche qualche bella ragazza, ma è normale”.

Come si arriva a questi livelli, così imberbe?

“In effetti molti mi danno non più di 17 anni. I sacrifici sono fondamentali, io ho lasciato la famiglia a 14 anni, sono al 6° anno fuori casa”.

Foscarini è un signore del calcio. Le lascia fare quel che vuole, nel preparare le partite?

“Verso le gare interne non siamo in ritiro, però occorre sempre buon senso. A me non piace fare la vita notturna, sono abbastanza serio”.

Ha amici anche in Piemonte?

“Sì, ma dalla Calabria vengono spesso a trovarmi”.

Dal Chievo è in prestito, si salveranno tutte le sue squadre?

“Me lo auguro. La Pro può farcela, in B, com’è riuscito ai gialloblù di Maran, in A. E’ più difficile ma la salvezza è alla portata anche del Carpi, a cui sono molto legato”.

Di proprietà di una società del norde è anche Leonardo Davide Gatto, dell’Atalanta.

“Senza sacrifici – racconta il maggiore dei fratelli calciatori -, non si va da nessuna parte. Io sono andato via di casa a 13 anni”.

Nel Cosentino ha ancora papà Francesco, medico del paese, 63 anni, e mamma Rosa, 57enne casalinga.

“Non è stato facile lasciare gli amici, tanti sono veri e mi vengono a trovare spesso. Avveniva quando ero in Veneto e adesso che mi sono avvicinato. Mi seguono, credono in me e questo dà forza”.

Era indispensabile lasciare la sua terra d’origine?

“Non avevo alternative, in un comune che non offre sbocchi calcistici e poco anche come lavoro. E un giorno spero di arrivare in serie A, proprio per il mio paese e la famiglia, per gli amici e anche per me stesso”.

Qual è stata la sua prima tappa, extra Calabria?

“A Pistoia, ero in una squadra regionale, a Montecatini Terme, nell’Anchione Ponte Buggianese, poi fallita. Abitavo da solo in un convitto, studiavamo e non uscivamo mai. Fu una stagione comunque importante, per cercare maggiore visibilità, al sud neanche arrivano gli osservatori”.

Chi l’ha notata?

“In Toscana mi ha visto l’Atalanta, sono stato a Bergamo per 3 anni e mezzo, con Mino Favini, mago delle giovanili e Giancarlo Centi, ex mediano anche del Como, in A. Ero a la Casa del giovane, il convitto nerazzurro, con tutti i giocatori della Primavera. Alle 7, con il freddo, si andava a piedi a scuola. A pranzo mangiavamo qualcosa di veloce, poi l’allenamento e alle 19,30 si tornava per studiare e ripassare, così arrivavamo stanchi morti”.

Era spesso con Simone Zaza, altro ragazzo del sud, lucano.

“Era stato fuori rosa per 4-5 mesi, poi è diventato quel che sappiamo. Avevo con me altri ragazzi più giovani, adesso in categorie minori.

Tornavo a casa una volta sola, in stagione, a Natale e poi naturalmente in estate. I genitori mi sono stati vicini nei momenti bui, credevano in me, che potessi arrivare a fare qualcosa di importante. Con me c’erano Daniele Baselli, bresciano, e Davide Zappacosta, ciociaro, ora entrambi protagonisti al Torino”.

Poi i due anni al Pisa, con la finale playoff persa un anno e mezzo fa, contro il Latina.

“Lì vissi le emozioni più belle della carriera, in una piazza fantastica, con 3mila persone arrivate alle 3 di notte da Perugia per salutare la nostra vittoria in semifinale. All’Arena Garibaldi ci furono anche 15mila spettatori, resta il piacere di avere riportato gente allo stadio in una piazza che aveva perso un po’ la bussola per vari fallimenti”.

Realizzò 7 gol, compresa la doppietta nella semifinale contro il Perugia.

“Per quello devo ringraziare mister Dino Pagliari. Ricordo quando subentrò e si presentò così: “Mettetevi in campo, non vi conosco, ditemi i nomi. C’erano Mingazzini, Sabato e Ciccio Favasuli, centrocampista di Locri, ora alla Juve Stabia: è un atleta di Cristo, lo ringrazierò a vita, perché me l’ha cambiata, grazie ai valori che trasmette”.

Due campionati fa l’approdo a Lanciano, in Abruzzo realizzò 4 gol in 22 gare, con Marco Baroni in panchina, poi 5 con Roberto D’Aversa.

“Più 6-7 assist e 5 rigori procurati, D’Aversa aveva davvero molta fiducia in me. E il rapporto fra mister e atleta è davvero basilare”.

Il suo cartellino resta di proprietà dell’Atalanta, che l’ha mandata in prestito a Vicenza e adesso alla Salernitana.

“Vedremo a fine campionato dove sarò”.

Com’è il rapporto con Massimiliano, il fratello minore?

“Ottimo. Ci stimiamo a vicenda, ha molte qualità, è un bravissimo ragazzo. Lo rassicuro in tante cose, ha qualità per arrivare a livelli elevati e in A. E’ un trequartista, mentre io sono attaccante esterno”.

Avete altri fratelli?

“Una sorella, Giada, 27 anni, studentessa, e Giuseppe, 30enne. Coltiva un terreno, a mandarini”.

Chi le viene in mente, oggi, tra i fratelli del calcio italiano, dalla serie B in su?

“Ora non ce ne sono molti, certo i due del Frosinone, Daniel e Matteo Ciofani. In passato naturalmente i Baresi, ma erano difensori”.

 

In generale qual è il segreto per emergere?

“Sacrificio e umiltà, tantopiù al sud, dove servono strutture, oltre a esperti di calcio. Noi poi siamo stati fortunati perché abbiamo anche uno sponsor tecnico, l’Adidas”.

Sul campo quanto incidono ansia e scaramanzia?

“Ogni calciatore ha le sue fissazioni. Inoltre c’è chi soffre la partita e chi meno, è soggettivo. All’inizio con meno esperienza avvertivo di più la tensione, acquistando sicurezza l’ansia diminuisce, conta essere consapevoli dei propri mezzi”.

Avete mental coach?

“Il primo anno, a Lanciano, con Baroni, era venuto uno, 2-3 volte, a parlare con la squadra. Ma quella figura non è indispensabile”.

A cura di Giangabriele Perre

(nella foto in copertina Leonardo Gatto – lanazione.it)

 

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