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Don Aldo Rabino era il padre spirituale del Torino, dal 1971 a due giorni fa, quando è scomparso per un infarto. L’avevamo scoperto per caso, perchè fuori dal Piemonte non è notissimo: uscirono alcune righe su La Stampa sul suo libro con Beppe Gandolfo, voce piemontese di Mediaset. L’avevamo intervistato per Fc versione settimanale, poi per un quotidiano e avevamo proposto con convinzione la storia sua e quelle che aveva riportato nel libro: ovunque avessimo contatti. Perchè era unica, come quell’opera tutta torinista.
Anzi, la pubblicazione del 2012 ebbe un successo tale che gli autori fecero il bis, così da “Il mio Toro. La mia missione” derivò “Il Toro che vorrei”, sempre con Priuli e Verlucca editore. Parlare con don Aldo era appagante, perchè apriva uno squarcio sul Torino dall’interno, con quella presenza da record nella vita granata. Sapeva tenere i segreti, evitare gli eccessi di morbosità del giornalismo da social, arrembante.
Il sacerdote diceva messa ogni anno a Superga, ricordava eroi, campioni e anche meteore granata, appassionava con gli aneddotti e al contempo aiutava le persone. Avrebbe continuato così, per sempre. Sul suo Toro e la sua missione, che naturalmente non era solo sportiva. Delle due ore complessive passate con don Rabino a discettare di calcio e religione ci resta un concetto, chiaro. “Ogni giocatore ha fretta di monetizzare, o meglio di avere un contratto, perchè sa che quanto ha oggi può svanire. Un infortunio lungo, un appannamento di forma, un contrasto tecnico”.
“Ciascun calciatore è un’industria individuale”, confessava un lustro fa Marco Giampaolo, allenatore tornato oggi in serie A, all’Empoli. Una massima di cui don Rabino si era accorto magari dagli anni ’90, con compensi sempre più astronomici che giravano anche al centro Sisport di Torino o nel ritiro di Chatillon. O ancora a Leinì, vigilia delle gare casalinghe, allietata dalla funzione religiosa celebrata da questo sacerdote simbolo dei cappellani di squadre sportive.
Nacque a Torino nel ’39, venne ordinato sacerdote salesiano nel 1968, dopo una gioventù da promessa del calcio. Animato dallo spirito concreto di don Bosco, era stato in missione anche in Brasile. Fondò l’associazione Oasi e in avvio settimana era immerso in una delle sue iniziative, a Maen, Valle d’Aosta, senonchè il malore l’ha sorpreso di notte.
Era stato consigliere nazionale della Figc e ora presidente onorario della fondazione stadio Filadelfia. Nel mondo granata aveva un rimpianto: “Avrei dovuto fare di più per Dante Bertoneri”. Già, quel ragazzo con i baffi che a 16 anni giocava in serie A. Corre ancora tanto, se la schiena glielo permette, anzi viveva di maratonine. Dante chiede aiuto a tanti, sopra tutti ai giornalisti, ma lo ascoltano in pochi.
Don Aldo era in pensiero per quell’ex mediano che a Massa rischia di perdere la casa, anche perchè non vuole usare quel diploma da badante. Don Rabino era affezionato anche a lui. “E resto in contatto con molti ex – raccontava -, alcuni dei quali avevo sposato”. In fondo il Toro è come una religione, lo testimoniano l’ex ct del volley Mauro Berruto e il suo erede Gianlorenzo Blengini: “Ero stato anche un ultras”, rivela en passant “Chicco”, il nuovo commissario tecnico della nazionale di pallavolo. C’è una frase di Berruto che catturava certamente anche don Rabino. “Per chiunque la squadra del cuore è speciale. Il Toro è qualcosa di diverso. Chi lo tifa lo sa benissimo, chi non lo tiene non può capirlo e allora rinuncio a spiegarlo”.
Ecco, il cappellano torinista manteneva equilibrio tra fede cristiana e calcistica, dosando la passione sportiva. “Sono a disposizione anche di chi sceglie di non partecipare alle messe”. Nessuna forzatura, insomma. Le uniche sono state per troppa generosità, per quel suo cuore che non ha retto.