Gaetano Conte 30 anni fa, all’Heysel.
Di Francesco Casula
“Non metto piede in uno stadio da quel 29 maggio 1985 e avevo deciso di tornarci proprio per vedere di nuovo la Juventus in finale e così ho scritto alla società: ho spiegato chi ero, quello che avevo passato in quella curva Z e ho chiesto due biglietti per Berlino. Mi hanno risposto che i biglietti sono nominativi e numerati, ma se volevo potevo vedere la sfida con il Napoli”.
Inizia così il racconto di Gaetano Conte a La Gazzetta del Mezzogiorno. Il tarantino divenuto suo malgrado il volto di quella tragedia in cui persero la vita 39 persone, dopo tanti anni di silenzio e persino una diffida vana per evitare di rivedere il suo viso barbuto in tv, al quotidiano pugliese ha descritto i suoi ricordi, i suoi dolori e il suo sogno svanito.
Voleva riprendere da dove aveva lasciato, dal sogno di vedere la sua Juve sollevare la Coppa dei Campioni come la chiama ancora nostalgicamente. Ha chiesto alla figlia di spedire una mail, ma non è bastato. Lui che da quel giorno non è più tornato allo stadio: la finale contro il Barcellona, dovrà guardarla in tv. “Però lo so che a rispondermi è stato qualcuno dello staff perché se fossi riuscito a scrivere direttamente al presidente Andrea Agnelli, mi avrebbe accontentato”. Forse avrebbe potuto superare quella paura che ancora lo attanaglia. Quando qualcuno lo salvò dalle macerie che gli bloccavano le gambe fu sistemato su una barella di fortuna: “All’improvviso mi voltai a guardare gli altri feriti. Accanto a me c’era il corpo di una bambina. Avrà avuto 14 o 15 anni: aveva la gola tagliata. Ho passato tre giorni e tre notti a piangere.
Sotto quelle macerie c’era finito per un altro piccolo tifoso: “Portai con me un ragazzo disabile. Aveva 15 anni e per fargli vedere la partita qualche settimana prima andai al comune e lo feci inserire sul mio stato di famiglia. In quella bolgia è stato il mio unico pensiero: quando riuscii a metterlo in salvo caddi per lo sfinimento. Lì cominciò l’inferno. La folla mi travolse e persi i sensi. Quando pochi minuti dopo mi risvegliai avevo le gambe bloccate dalle macerie e davanti a me c’era un uomo con la telecamera. Ricordo di aver letto ‘Italia’ sulla macchina da presa e iniziai a urlargli di aiutarmi, ma lui continuava a riprendere. Gli dicevo di tirarmi fuori dalle macerie, ma quello continuava a girare. Qualche tempo dopo mi dissero che aveva vinto anche un premio.
Ci pensi? Io stavo morendo e lui aveva vinto un premio”.Ricorda ogni momento di quella giornata fino a quando la folla non lo travolse: la sua gamba è così livida che ogni giorno deve prendere pillole antidolorifiche. “Per curare le conseguenze di quella finale: ho girato l’Italia, ma non c’è niente da fare, mi devo tenere il dolore. Pensavo solo di ricominciare da dove avevo lasciato e invece la dovrò guardare in tv. Peccato. Però vinciamo noi, ho giocato un biglietto con il risultato finale. Vinciamo noi”.