(Valmore Fornaroli) Leggendo il ricordo di Gianfelice, mi è venuto il magone. Le vacanze a Selvino, vi ho passato quasi venticinque anni in villeggiatura e Giacinto era sempre lì.
Tennis davvero tanto, tanti tornei estivi vinti ed una casa semplice. Da adolescente ho frequentato Gianfelice per un po’ di estati. Un ragazzino fantastico, parlava delle sue cose dell’Inter come tra ragazzi, senza far pesare che era un Facchetti. Lo battei 7-0 ad un torneo di calciobalilla. Me ne vanto ancora adesso.
Giacinto Facchetti era la mia infanzia. Quando già portava il 6 e faceva il libero, il capitano, le mie prime scarpette da calcio comprate dallo zio interista un’estate a San Pellegrino.
di Gianfelice Facchetti
L’estate di nostro padre era fatta di sfide a tennis sotto il sole e partite a scopa d’assi giocate all’ombra: destinazione Selvino, val Seriana. Tra un set sulla terra rossa e una primiera al tavolino il mese di agosto se ne scappava sempre via così, interrotto solo da viaggi tra le montagne e Appiano Gentile a tener d’occhio la sua Inter nel quartier generale di una vita. Pomeriggi azzurri e lunghi fatti di sport e riposo, come quelli di un atleta in preparazione per la nuova stagione, attento ai dettagli e a non sgarrare mai. Nemmeno a tavola, dessert a parte.
Era a quel punto del pasto che il soldato semplice Facchetti vacillava, sentendo di potersi concedere una manciata di calorie in più. Davanti a una crostata alla marmellata fatta in casa o ai biscotti di Bigio a San Pellegrino, mèta di tanti ritiri trascorsi a due passi da lì, si toglieva con eleganza i panni del terzino per indossare quelli del gourmet senza macchia e senza paura di andare fuori forma. Nessun sergente lo avrebbe più fatto salire sulla bilancia per metterlo in guardia sul rapporto peso altezza… Ai maestri della pasticceria che oggi propongono il panettone a ferragosto dico, «Facchetti ci era arrivato già dieci anni fa! In anticipo, un po’ come la storia del difensore che faceva gol…». Ho detto dieci anni e non sembra vero, faccio fatica a prendere sul serio questa assenza di parole, carezze e strette di mano. È solo una ricorrenza, la vita è andata avanti regalandoci altra vita, eppure manca il padre, l’amico, il marito, il nonno, il campione. Sul fronte nostro ci siamo allenati per riprendere in fretta a giocare come si deve, certi giorni sul velluto, altri su campi incidentati tra erbacce e pietre, a volte attaccando, altre in ritirata a far melina nei paraggi di un corner aspettando il fischio che riportasse pace e riposo.
Il gol più bello del numero tre è nato lì, in difesa, dopo avere incassato da signore i calci negli stinchi che il male gli dava come il peggiore degli attaccanti, come se esami insuperabili alla glicemia avessero la forza di far sbiadire i fotogrammi delle sue cavalcate, «Nei miei gol c’era tanto zucchero, cos’è questo scherzo?». In quel resistere dolce di Giacinto è nato un fiore, nel suo stare saldo anche in un letto di ospedale come nell’area di rigore, capitano di se stesso e di una rosa lunga e composta. Solo grazie a lui e al suo spendersi senza riserve abbiamo incontrato tante persone pronte a raddoppiare la marcatura, a ricevere passaggi in appoggio per lanciarlo in gol verso le stelle. Dieci anni senza lui sono stati anche dieci anni con tante presenze familiari che non hanno mai smesso di raccontare la sua storia e proteggerla con passione e calore. Ancora oggi, mentre da tutta Italia amici e amiche corrono a Milano per festeggiarlo: tra loro c’è anche Maurizio, maestro pasticciere che da Follonica sforna una torta per l’occasione, la carica nel bagagliaio della macchina e porta il dolce alla fine del racconto. Fosse qui Giacinto gli direbbe, «Grazie! Sul finire di questa estate bislacca, il tuo panettone sarebbe bastato!».
Il gol più bello del numero tre è nato lì, in difesa, dopo avere incassato da signore i calci negli stinchi che il male gli dava come il peggiore degli attaccanti, come se esami insuperabili alla glicemia avessero la forza di far sbiadire i fotogrammi delle sue cavalcate, «Nei miei gol c’era tanto zucchero, cos’è questo scherzo?». In quel resistere dolce di Giacinto è nato un fiore, nel suo stare saldo anche in un letto di ospedale come nell’area di rigore, capitano di se stesso e di una rosa lunga e composta. Solo grazie a lui e al suo spendersi senza riserve abbiamo incontrato tante persone pronte a raddoppiare la marcatura, a ricevere passaggi in appoggio per lanciarlo in gol verso le stelle. Dieci anni senza lui sono stati anche dieci anni con tante presenze familiari che non hanno mai smesso di raccontare la sua storia e proteggerla con passione e calore. Ancora oggi, mentre da tutta Italia amici e amiche corrono a Milano per festeggiarlo: tra loro c’è anche Maurizio, maestro pasticciere che da Follonica sforna una torta per l’occasione, la carica nel bagagliaio della macchina e porta il dolce alla fine del racconto. Fosse qui Giacinto gli direbbe, «Grazie! Sul finire di questa estate bislacca, il tuo panettone sarebbe bastato!».
A cura di V. Fornaroli