Il fondo bianco, evocante l’infinito, due alberelli definiscono la scena: un giovane si tuffa da una costruzione di blocchi squadrati, verso uno specchio d’acqua. Il blocco solido da cui si stacca è un trampolino, luogo di confine tra terra e acqua, luogo particolare: non fa accedere al mare salpando, o immergendosi a poco a poco, ma con un balzo. Lo specchio d’acqua si distende tra l’albero di sinistra e il trampolino, lì si immergerà il giovane tuffatore, reso con linea agilissima e nervosa. È una delle grandi opere pittoriche di tutti i tempi, forse la prima pittura greca non vascolare giunta fino a noi, datata tra il 480 e il 470 avanti Cristo. È la Tomba del tuffatore – così la battezzò l’uomo che la scoprì, nel 1968, il grande archeologo Mario Napoli.
Che definì la pittura come simbolo del «transito dell’anima verso la vita ultraterrena, un tuffo verso l’aldilà». Rappresentazione simbolica dell’eterno. Ogni volta che vediamo un tuffatore sul trampolino noi proviamo il brivido metafisico del pittore della celebre opera di Paestum. Il brivido nel tuffo nell’elemento che i poeti, gli scienziati sanno essere luogo della nostra origine, e quindi misterioso. Per questo lo sport dei tuffi è così popolare e spettacolare. Tania Cagnotto, che ha appena vinto il suo primo oro iridato, è famosa quanto un’attrice cinematografica, pur non facendo nulla per promuoversi e certo non guadagnando come una star.
Meraviglia dell’inconscio memoriale: molti le studiano tutte per farsi notare, ma per noi, nel profondo – che vuol dire negli occhi, rapiti sulla superficie dell’acqua – Dibiasi, Louganis, Giorgio e Tania Cagnotto sono immagini incancellabili. L’uomo che si tuffa nell’elemento in cui è nato. Il ritorno all’origine, che esige eleganza, stile, controllo. La mente che tra terra e cielo disegna la bellezza. Disciplina olimpica dal 1904, quella dei tuffi è in realtà la manifestazione di un archetipo. Ora parliamo con il più bello, il più apollineo tuffatore di ogni tempo, che non a caso è italiano: Klaus Dibiasi.
>
>
> Che cosa prova il tuffatore? Può descrivere l’esperienza di tuffarsi, l’impatto con l’acqua? Le emozioni che si provano, le tensioni e – credo, agli inizi – anche eventuali timori…
> «L’ebbrezza di governare il proprio corpo in un ambiente del tutto diverso da quello umano, terrestre, stimola e motiva l’atleta che intraprende questo sport. In aria le leggi della biomeccanica sono completamente diverse che al suolo. Ci vogliono diversi anni per apprendere come governare il proprio corpo in volo riuscendo a piazzare un’entrata in acqua verticale e senza spruzzi, dopo magari aver effettuato tre o quattro salti mortali in aria. Bisogna poi imparare ad orientarsi in aria durante l’esecuzione di avvitamenti e salti mortali. Anche la padronanza della paura di cadere male, che ad ogni tuffo nuovo si presenta come un fattore ignoto da scoprire. La didattica è fondamentale, si passa dal facile al difficile, cercando di rendere il più piccolo possibile il fattore ignoto nell’affrontare un elemento nuovo».
>
>
> Che cosa passa nella testa dell’atleta un attimo prima di tuffarsi? Si isola dal mondo? Si concentra in se stesso o esce da se stesso?
> «Si impara per tentativi e correzioni, quindi si effettua un gran numero di ripetizioni. Ogni ripetizione fa riferimento al tuffo precedente e si cerca di migliorare sia i dettagli tecnici che le qualità fisiche. La preparazione atletica è la base di tutto: sia come scioltezza articolare che come potenza muscolare. Cerchi di immaginare: prima di tuffarsi l’atleta pensa all’esperienza fatta con quel determinato tuffo. La mente si concentra su quello, lo memorizza, in un certo senso visualizza. Mi creda, si effettua una specie di ripasso mentale dell’azione da compiere, e con un meccanismo di feedback istantaneo viene guidato il tuffo fino in acqua. Si dice che finché il corpo non è immerso in acqua sono possibili correzioni che permettono di controllare l’esito del tuffo».
La mente può modificare l’esito del tuffo anche mentre il tuffatore è in aria?
«In quel brevissimo tempo si possano elaborare correzioni. In volo – per usare le sue parole – può accadere qualcosa».
Siamo già nell’azione e in ciò che la precede, e ne traccia l’esito. Ma il tuffo è uno sport unico, o uno dei pochi in cui l’atleta non lotta direttamente con l’avversario, ma con valutazioni assolute. Insomma, i tuffatori fanno la gara ognuno da solo. È così?
«Sì, il tuffatore è principalmente occupato a trovare la massima concentrazione per eseguire il proprio tuffo. Certamente esiste l’avversario e viene anche seguito durante la gara, ma l’interesse principale è rivolto a se stessi. È spesso anche questione di psicologia, alcuni atleti non vogliono seguire né i punteggi né l’avversario, pur di essere concentrati al massimo su loro stessi».
Molti campioni di questo stellare Dream Team che “Avvenire” sta componendo sottolineano situazioni analoghe. La gara dell’atleta è con se stesso. I Greci, che lo paragonavano al poeta tragico, lo avevano capito. Torniamo alla realtà pratica. È duro allenarsi, e durare anni e anni ai massimi livelli, come nel suo caso?
> «Definire duro l’allenamento è forse improprio. Certo, durezza, fatica, ma in genere l’allenamento è un piacere. Coadiuvato dalla motivazione: riuscire a fare il risultato. Certo, a lungo andare l’allenamento deve essere gestito intelligentemente, senza spompare l’atleta fisicamente e psicologicamente. Con la difficoltà dei tuffi di oggigiorno chiaramente diventa anche impegnativo l’allenamento giornaliero… Per questo forse la carriera di un atleta di oggi è meno lunga di una volta. Il successo però aiuta a trovare la motivazione necessaria per continuare a gareggiare nel tempo».
Che cosa ricorda e vorrebbe rievocare della sua carriera?
«In positivo ci sono tanti ricordi belli sia dell’infanzia che durante la crescita agonistica. Raggiungere le medaglie olimpiche è ovviamente motivante e il duro allenamento viene sopportato meglio. Come esperienza negativa, cito quella del 1970: dopo aver gareggiato in due Olimpiadi avevo sottovalutato gli Europei di Barcellona, dove sono stato battuto sia dal trampolino che nella mia specialità, che era la piattaforma. Tutto questo però mi servì di lezione e mi ha reso più forte nell’affrontare gare successive».
L’ho vista in televisione, la Rai aveva combinato un incontro tra i due massimi di ogni tempo, Dibiasi e Louganis. Una scena da piangere, per la commozione e il senso di lealtà sportiva. Continuavate a farvi le lodi, e ognuno sosteneva che il più grande era stato l’altro. Tu hai vinto di più, dice Dibiasi. Risponde Louganis: ma tu per me eri un mito, come i Beatles… Ricorda? Vuole parlare dei suoi avversari e colleghi che più la colpiscono?
«Nel nostro sport l’avversario è rispettato e apprezzato perché conduce la nostra stessa vita di sacrificio, di emozioni e di sofferenza, nel preparare il proprio programma al meglio. Di avversari ce ne sono stati tanti, in diannove anni al vertice agonistico. Nel 1964, Tokyo, Bob Webster era il campione da battere dalla piattaforma mentre io ero un ragazzino, poi a Città del Messico era proprio il messicano Álvaro Gaxiola, che godeva dei favori del proprio pubblico. A Monaco 1972 la situazione era un po’ più tranquilla, anche se c’erano tuffatori forti a insidiare la medaglia d’oro. L’ultima mia Olimpiade era Montréal nel 1976, quando l’avversario per eccellenza era il giovane Greg Louganis: tuffatore di un’altra epoca, che faceva già allora una serie più competitiva della mia. Era un po’ come il passaggio del testimone da un atleta ormai arrivato al giovane talento emergente. L’avversario della vita comunque è stato l’amico Cagnotto col quale ho condiviso allenamenti e successi avendo insieme conquistato nove medaglie nell’arco di cinque Olimpiadi. Senza avere sempre come misura il mio amico Cagnotto, vicino in tutte le gare, non so se i miei successi sarebbero stati gli stessi. L’uno era misura per l’altro anche nelle gare minori, e durante i duri periodi di allenamento ci si sosteneva a vicenda».