Assocalciatori.it. Il Verona festeggia i 30 anni dallo scudetto, è l’unico nel dopoguerra vinto da una città non capoluogo di regione.

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Il 12 maggio 1985 il Verona vince il suo storico scudetto a Bergamo

 

Da Assocalciatori.it

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Formidabile quello scudetto, anche perchè è stato il solo nel dopoguerra vinto da un club non espressione di un capoluogo di regione.

Martedì 12 maggio sono stati 30 anni dall’unico tricolore vinto dal Verona, l’amatissimo Hellas, e il sorteggio arbitrale, come ricorda sempre Rino (Salvatore) Tommasi, giornalista sportivo scaligero, re delle statistiche e delle analisi applicate allo sport. Tennis, boxe, ma pure calcio.

Il campionato era a 16 squadre, c’erano i due punti per vittoria e il Verona venne arbitrato dai migliori: 4 volte da Casarin, 3 da Mattei, 2 da Agnolin (tutti poi anche designatori) e 2 da D’Elia.

L’impresa dei veronesi è paragonabile alle promozioni odierne di Carpi e Frosinone, anzi superiore, in valore assoluto, perchè lo scudetto è lo scudetto. Lo score fu di 15 vittorie (9 in casa), 13 pareggi e due sconfitte (con l’Avellino e il Torino, secondo classificato, con allenatore Gigi Radice). Nell’82 tornò in serie A, si classificò quarto, poi sesto, raggiunse due finali di coppa Italia e azzeccò il capolavoro.

L’allenatore era Osvaldo Bagnoli, il mago della Bovisa, che ha smesso troppo presto, nel ’94, senza vincere lo scudetto con un’Inter decisamente più forte, ma che si scontrò con il Milan degli olandesi.

In rosa c’erano due stranieri, il massimo consentito dalle norme dell’epoca: il mediano Hans Peter Briegel, due volte finalista mondiale con la Germania, e Preben Larsen Elkjaer, danese.

C’erano solo 17 professionisti e vennero scelti dal ds Emiliano Mascetti, il vero architetto dell’impresa gialloblù. L’undici era declinato a memoria: Garella; Ferroni, Marangon; Volpati, Fontolan, Tricella; Fanna, Sacchetti (Bruni), Galderisi, Di Gennaro, Elkjaer. Dunque c’erano Pierino Fanna, ala scudettata con la Juve e poi con l’Inter (e 15 anni fa vice di Prandelli) e Giuseppe Galderisi, il popolare Nanu; il regista Antonio Di Gennaro, primo commentatore per Mediaset Premium, e il portiere Claudio Garella, famoso per le parate con i piedi; il libero Roberto Tricella (ai mondiali del Messico come vice Scirea, mentre il ct Enzo Bearzot escluse Franco Baresi) e l’esterno mancino Luciano Marangon, da anni titolare di stabilimenti balneari in Spagna.

La stella però era Elkjaer, definito da Gianni Brera atleta bufalino: “Un incrociatore, sfondatore impetuoso”. In effetti, partendo dall’ala sinistra, si muoveva con la forza di un bufalo: memorabile quando segnò alla Juve nonostante la scarpa persa, nell’uno contro uno con Luciano Favero, che avrebbe chiuso la carriera ai massimi livelli proprio nel Verona.

Per chi l’ha visto e per chi non c’era, per dirla alla Ivano Fossati, ne La mia banda suona il rock, Elkjaer le suonava proprio agli avversari. Arrivò nell’84, dopo la semifinale degli Europei persa contro la Spagna, pur avendo dato spettacolo, e allora in quell’anno fu terzo nel Pallone d’oro, dietro ai francesi Platini (Juve, campione d’Europa) e Jean Tigana (Bordeaux, semifinalista in coppa dei Campioni) e poi secondo, alle spalle di Le roi Michel.

Giocava nel Lokeren, da quando aveva 21 anni e al massimo nel campionato belga era arrivato secondo. “Scesi a Verona a 28 anni – ricorda -, fu mia moglie a convincermi ad accettare l’Italia. E buone referenze arrivarono anche dal compagno di nazionale Miki Laudrup, all’epoca alla Lazio”.

Elkjaer prese casa al lago di Garda e alcune volte l’anno ritorna volentieri. In fondo a Verona è trattato da eroe ma in tutti gli stadi quell’armata veneta era vista con grande simpatia, al punto che la media spettatori di quel campionato eccezionale fu superiore ai 38mila per gara.

E lo scandinavo, detto anche cavallo pazzo, mangiava cioccolato e fumava. Oggi quante sigarette? “Non ha una domanda più intelligente?”, risponde piccato.

Con Bagnoli si capiva con uno sguardo. “Era un gentiluomo esigente e onesto, chiedeva di lavorare”.

In Belgio Elkjaer era abituato a segnare e basta, fu Tricella a insegnargli l’importanza del look. “Ogni tanto mi accompagnavano a fare spese, d’estate non mettevo i calzini e anche per questo davo nell’occhio.

Ma Briegel era sempre in tuta, dunque era peggio di me…”.

Dal 2002, il triangolo tricolore resta fra Juve, Milan e Inter, all’epoca del Verona ci furono altri scudetti alternativi: i due del Napoli, nel ’91 la Sampdoria, nel 2000 la Lazio, nel 2001 la Roma.

“E vent’anni prima vinse il Bologna, pure con un tedesco, Helmut Haller, e con un danese, Harald Nielsen. Oggi sono aumentati gli stranieri, i danesi sono pochi, mi aspettavo qualcosa dal lungo centravanti del Palermo Makienok, ma ha avuto poco spazio. E il difensore centrale Simon Kjaer in Sicilia aveva fatto bene”.

Come l’anno scorso, Hellas e Chievo si sono salvate in tandem e in anticipo, la squadra di Maran anche con maggiore disinvoltura rispetto all’impresa compiuta da Eugenio Corini. “La città riesce a sostenere entrambe. Ma l’Hellas non deve più retrocedere”.

Con Elkjaer, i gialloblù parteciparono alle coppe europee per 4 volte. Vinsero a Belgrado in Uefa contro la Stella Rossa, grazie ai pallonetti di Galderisi e Preben Elkjaer, ma l’avventura più importante, in coppa dei Campioni, terminò al secondo turno contro la Juve campione in carica.

Nel quarto di finale Uefa dell’87/88 c’era ancora Osvaldo Bagnoli in panchina, mentre il centravanti era Marco Pacione, oggi team manager del Chievo. L’epopea terminò con la retrocessione del ’90, anno dei mondiali, ospitati anche dallo stadio Bentegodi: l’ultima gara fu memorabile perchè levò al Milan lo scudetto, a favore del Napoli.

Elkjaer però nell’88 era rimpatriato, al Velje, e all’epoca chiuse anche con la nazionale. Oggi commenta il calcio per Tsv, tv danese.

“Trent’anni fa, la serie A era il campionato più spettacolare al mondo, adesso la Juve è la squadra più forte e a me piace anche il Napoli”.

L’Italia gli ha lasciato in eredità un figlio, Max, di 28 anni, calciatore mancato perchè si infortunò sciando.

Tra gli uomini forti dello spogliatoio Hellas c’era Domenico Volpati, oggi 64enne. Faceva l’interditore, il tattico. “Forse solo fra trent’anni ci renderemo conto di quello che siamo stati capaci di fare…”, disse all’epoca. E allora non a caso siamo qua a raccontare quella parabola sorprendente.

Era il dottore di quel Verona, si laureò in medicina a Pavia, e ha tre studi di odontoiatria.

“In città – racconta Volpati – ci sono tifosi con i capelli bianchi che ci fermano per la strada per trasmetterci il loro affetto. Ma pure i loro figli, che ci conoscono solo dai filmati su YouTube”.

All’epoca la gente aspettava i giocatori fuori dallo stadio per parlare, magari per offrire formaggio, soppressa affettata sul cofano dell’auto. Riti che adesso toccano magari il quartiere Chievo, per le salvezze dell’altra parte gialloblù.

Gli allenamenti erano sempre aperti a tutti e a Verona andavano scolaresche, i nonni con i nipoti. Volpati avrebbe dovuto essere riserva, assieme all’attaccante Franco Turchetta, oggi titolare di centri estetici, e al secondo portiere Sergio Spuri, se Mauro Ferroni non si fosse infortunato al ginocchio. Era un pupillo di Bagnoli, che l’ebbe alla Solbiatese e al Como e a 31 anni se lo portò al Verona.

“Una delle partite chiave fu il 3-1 al Bentegodi con il Napoli, in cui Briegel marcò Maradona e segnò pure un gol, di testa”.

Il tedesco è stato il ct dell’Albania e del Bahrein, ora è tornato in Germania e segue sempre il calcio. Marangon voleva andare via, la società lo rimpiazzò con Briegel ma poi restò e allora il panzer venne adattato a centrocampo e così si affermò anche in Italia.

Ferroni oggi fa l’immobiliarista, il portiere Claudio Garella aveva aperto una gioielleria. “Adesso – dice Garellik – faccio il dirigente di una squadra dilettantistica, il Barracuda, a Torino”.

Tricella è ingegnere, progetta le case e aggiudica appalti in edilizia. Silvano Fontolan, fratello maggiore di Davide, allena la Berretti del Como, a 60 anni.

Fanna è commentatore a Bella&Monella, la radio ufficiale dell’Hellas: all’epoca in nazionale era chiuso da Bruno Conti e Franco Causio, debuttò senza però disputare Europei nè Mondiali, aveva guizzi alla Robben, l’olandese del Bayern Monaco.

A centrocampo, accanto a Volpati c’era Luigi Sacchetti, poi allenatore del Carpi, ma in serie C2: adesso fa il broker finanziario. Si era infortunato a un ginocchio e a lungo venne sostituito da Luciano Bruni, oggi tecnico nella primavera del Livorno, dopo una parentesi alla Lucchese. Bruni aveva guidato la Primavera di Siena e Piacenza, Juve e e Sampdoria. A Lucca, la prima squadra è affidata da Galderisi, da una vita tecnico in Lega Pro e sempre in attesa di debuttare in B.

Di Gennaro era il regista vecchia maniera. “Anche superiore ad Antognoni – sostiene Volpati -, perchè in più sapeva difendere”.

Bearzot gli affidò la nazionale al mondiale del Messico nell’86, salvo però pentirsi nell’occasione più importante, l’ottavo di finale con la Francia, poi semifinalista, quando affidò la marcatura di Platini a Beppe Baresi.

In queste settimane sono molte le iniziative al palazzo della Gran Guardia, in particolare martedì 19, con la partecipazione degli ex gialloblù. E’ stato realizzato un calendario a scopo benefico, sono previsti incontri con le scuole e i cittadini, per ravvivare la memoria storica: in fondo quei 16 campioni d’Italia dell’85 si ritrovano annualmente per una tavolata in osteria, a Bardolino o in Valpolicella.

L’appuntamento stavolta è in piazza Brà, con biglietto in beneficenza alla onlus sostenitrice degli ex gialloblù in difficoltà. Trent’anni fa, il Verona si cucì lo scudetto al petto a Bergamo, 1-1 contro l’Atalanta guidata a centrocampo dall’olandese Peters, mentre il 19 maggio festeggiò in piazza, l’indomani dell’1-1 al Bentegodi, contro l’Avellino. Quella sera Volpati non c’era, perchè aveva organizzato il matrimonio con Daniela. “Mica potevo immaginare che avremmo vinto lo scudetto…”.

Bagnoli, dal canto suo, non era un grande oratore. Nel marzo del 1985, a un convegno dell’Aic salì sul palco e si toccò il naso, non sapendo come iniziare: “Adesso mi tocca fare la figura dello stupido – disse per spiegare il primato del Verona -, perché non c’è niente da rivelare. Giochiamo un calcio tradizionale, che facciamo pressing lo leggo sui giornali, in campo non l’ho mai notato”.

Il segreto era semplice, ciascuno nel proprio ruolo, seguendo le sue indicazioni, in dialetto milanese mixato al veronese. Perchè a Verona ha la famiglia e vive.

“Ogni 5 anni ci troviamo – dice il mister, che a luglio compirà 80 anni -. Ogni volta che vedo tanta gente contenta mi dico che abbiamo fatto qualcosa di bello: i giocatori, il presidente Guidotti (scomparso nel ’98, ndr) e il patron Chiampan, a lungo al vertice della Canon”.

Sfogliando l’almanacco Panini, Bagnoli indicava al ds Mascetti

centrocampisti da 3-4 gol a stagione. Era per un calcio operaio, del resto aveva lavorato davvero, alla Bovisa, seguendo l’esempio del padre, alla Fargas. Osvaldo giocava a pallone, scalzo e nel doposcuola faceva cinture. Poi tazze per i water, fasce elastiche in un’officina meccanica.

«Lavori che insegnano cos’è la fatica, i veri sacrifici, altro che quelli dei calciatori».

Al Milan arrivò da giocatore, assieme all’amico Pippo Marchioro, che poi arrivò anche ad allenarlo, salvo essere esonerato per incompatibilità con i campioni come Gianni Rivera.

In fabbrica guadagnava 28mila lire al mese, in rossonero gliene offrirono 35mila. Faceva il centrocampista, alla Luciano Bruni.

La squadra si preparava sempre in Trentino, a Cavalese, in un albergo sobrio. Il signor Osvaldo sceglieva i titolari e li comunicava, alle 6 riserve restava la panchina.

Per quel suo parlare chiaro, da Gianni Brera venne ribattezzato Schopenhauer, perchè gli ricordava il filosofo tedesco, pessimista. Aveva solo un vice, Antonio Lonardi, che da portiere conquistò il record di 7 promozioni: 4 in B e 3 in A. Naturalmente faceva il preparatore dei portieri, mancavano invece il preparatore atletico e l’addetto al recupero degli infortunati.

Bagnoli usava due marcatori fissi sulle punte avversarie e poi la zona mista, a centrocampo. Avrebbe voluto affidarne le chiavi a un altro Osvaldo, Ardiles, ma il Tottenham offrì di più e allora il nazionale argentino andò in Inghilterra. Giunsero allora quei gregari, scartati magari da tutte le squadre migliori: Lazio e Fiorentina, Juve, Napoli e Roma; Inter e Sampdoria.

E Volpati arrivava dal Torino, in carriera aveva fatto tutti i ruoli eccetto il portiere.

Il Verona giocava benissimo senza palla, fra contropiedi entusiasmanti e attacchi ragionati, con il lancio di Antonio Di Gennaro.

Oggi Bagnoli va ancora a vedere il Verona, grazie alla tessera omaggiata dalla società, anche alla moglie. Curioso che sia stato esonerato solo al debutto in panchina, a Solbiate Arno, provincia di Varese, nel 1973-74 (“Non potevo accettare che il presidente cambiasse posizione a Ugo Tosetto”) e nell’ultima esperienza, all’Inter. L’ex presidente Ernesto Pellegrini ammise l’errore. Lo sostituì con Giampiero “Pinna” Marini, che traghettò la squadra alla salvezza. Il signor Osvaldo aveva guidato il Verona per 9 anni, dall’81, con la promozione in A al primo tentativo. Nel ’90 passò al Genoa e autografò i migliori risultati del Grifone nel dopoguerra, con 4° posto e semifinale di coppa Uefa, persa contro l’Ajax. Altre imprese di un calcio e di personaggi irripetibili. Come il suo Hellas.

Vanni Zagnoli

 

 

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