Assocalciatori.it. Renato Zaccarelli, i 70 anni della bandiera granata

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Zac, la rasoiata. Quel gol di Renato Zaccarelli ai Mondiali del 1978 ha portato il capitano del Torino nel mito, fra i marcatori azzurri dei Campionati del Mondo. Fu nel 2-1 del girone contro la Francia, un bel tiro da fuori, palo e gol.
Zaccarelli ha compiuto 70 anni lunedì 18 gennaio, l’abbiamo inseguito dall’inizio di questa settimana, è in famiglia, con la moglie e il nipotino: “Faccio il nonno, la sera stacco presto. E poi ho collegamenti con tv”.
Zac preferisce non raccontarsi, l’abbiamo incrociato decine di volte, in Emilia, negli stadi, dove arriva a commentare per Sky, seconda voce garbata, magari non tra più ritmate, sicuramente competente. Zaccarelli, dunque, come titola La Stampa, il quotidiano di Torino, è stato la miglior mezzala del Toro dopo Superga.

È un simbolo indelebile della storia granata della quale è stato il terzo calciatore con più presenze (413) dopo altre due icone, lo scomparso Giorgio Ferrini e Paolo Pulici. A parte gli inarrivabili del Grande Torino, le bandiere granata arrivano tutte da quegli anni, dal gruppo che riportò lo scudetto a casa 27 anni dopo. Esempi in campo e fuori: quando il “capitano dei capitani” smise con il calcio, Zaccarelli aveva 24 anni, era all’inizio della sua carriera calcistica. Approdò a Torino a 15 anni, fu prelevato dallo Junior Ancona, storica squadra del quartiere dorico di Vallemiano, è stato in prima squadra dal 1974 al 1987. In avvio di carriera andò in prestito per tre volte, al Catania, al Novara e al Verona, con cui esordì in A nel 1973.
Con Pecci e i due Sala, Patrizio e Claudio, forma a metà degli anni ’70 un centrocampo eccezionale. Elegante, concreto, costante nel rendimento. Possedeva tutte le prerogative dell’interno, la visione del gioco, la capacità di cambiare impostazione in modo repentino e inatteso, il senso innato della posizione, una discreta velocità, la rapidità nel tocco e il tiro, secco. Prima di un Milan-Torino era acciaccato, venne testato davanti a un distributore di benzina e quell’area di servizio divenne una sorta di campo di allenamento nelle partite successive perché il Toro vinse dopo quella volta.
Con il passare degli anni indietreggia il suo raggio d’azione reinventandosi libero, dal grande senso tattico. In questo ruolo vive una seconda giovinezza che gli permette di giocare fino a 36 anni: l’anno prima gli viene anche assegnato il “Guerin d’Oro” come miglior calciatore del campionato, riconoscimento inconsueto, per un non attaccante e per chi non ha vinto un altro scudetto.

Da libero piaceva tanto a Oberdan Ussello, l’allenatore che l’aveva scoperto nella Primavera del Torino, scomparso nel 2002. “Vederlo finalmente giocare dietro la difesa mi riempie di gioia gli occhi e il cuore. Per lo stile, il tempismo e il colpo d’occhio nello scegliere il momento giusto nell’intervento sono eccezionali. Ho sempre sperato che si trasformasse in libero, era in grado di interpretare il ruolo ai massimi livelli”.
Per Zaccarelli anche 25 presenze e due gol, l’altro fu nel 6-1 con la Finlandia, nel 1977. Al Mondiale di Argentina partì dalla panchina, dietro Antognoni, collezionò 5 presenze. Era nell’Italia più bella, più bella anche di quella che vinse il Mondiale del 1982. Era anche nella rosa dell’Europeo del 1980, chiuso al quarto posto come due anni prima, ma non scese in campo. Stessa cosa nel Mundialito andato in scena in Uruguay, 40 anni fa, fra il dicembre del 1980 e il gennaio dell’81.

Terminata l’esperienza da calciatore, Zaccarelli ha tentato anche la carriera da dirigente e allenatore, ma con meno successo. È stato Direttore Sportivo del Toro del notaio Goveani e team manager con Gianmarco Calleri, poi una breve esperienza nell’Alessandria. Sbarcò in Federazione, prima commissario tecnico dell’Under 21 di serie B, poi vice allenatore dell’Under principale. Nel 2002 torna al Toro partendo dal settore giovanile, poi sostituisce Sandro Mazzola nel ruolo di Direttore generale, ma si cimenta anche come allenatore, subentrando prima a Ulivieri e poi ad Ezio Rossi, portando i granata in Serie A dopo lo spareggio con il Perugia. Memorabile il suo giro di campo in lacrime, quella volta. Ma poco dopo il Torino fallisce. 
Zaccarelli riparte dal Bologna, come ds, nel 2005-06, una stagione in Serie B, con presidente Alfredo Cazzola. Da lì, praticamente, Zac è uscito dal calcio.

I baffi l’hanno accompagnato in tutta la sua vita, un tratto distintivo, un vezzo.
Per completare il suo racconto ricorriamo al grande Gian Paolo Ormezzano, che ne ha ricostruito la parabola pedatoria su Il Corriere di Torino. 
“Renato Zaccarelli (Ancona 1951) ha fatto i settanta in maniera quieta, non ricevendo ma neppure chiedendo rumori, clangori speciali di trombe anagrafiche e di gloriose ferraglie sportive. È stato uno dei più forti calciatori italiani da calcio completo, calcio giocato diremmo, pensando che «to play» e «jouer», inglese e francese, oltre che giocare vogliono anche dire recitare. E lui sempre ha interpreta-to la partita come un copione severo ed onesto, chiaro ed esplicito, euclideo e non mai picassiano, ha sempre recitato senza però mai fingere, perché la sua natura di bravo giocatore è stata proprio quella di bravo attore, bravo lavoratore in quella fiction è la vita e in quella zona che è il centrocampo.
È sempre stato un serio atleta e di conseguenza un uomo forte e distinto, elegante dell’eleganza sobria di chi veste bene senza farsi notare (Oscar Wilde: sarebbe stato un divertente cronista anche di calcio).
Uno come Zac una volta non sfuggiva alla definizione: mezzala, o se più difensivo che offensivo, mediano. Adesso ci sono cento modi diversi per dire del ruolo di uno che gioca bene dovunque, che tratta il pallone con riguardo, senza bieca scorretta determinazione, che non è mai frenetico ma appa-re sempre dinamico, che è attento e teso senza mai sciuparsi in rodomontate aggressive. Ad Ancona il padre, bigliettaio sui tram, faticò a lasciarlo partire per Torino a provare nel grande club, scordando l’atletica delle corse ad ostacoli. Il club granata lo tesserò e lo spedì in prestito al Catania, Serie B senza giocare, poi Toro per due stagioni nelle giovanili, quindi un po’ di B a Novara, per il ritorno definitivo a Torino: dal 1974 sino al 1987, un totale di 413 partite e 20 reti.
Quando Zac chiuse, e senza quasi cerimonie d’addio, tentò la carriera di dirigente tecnico, un po’ scrivania un po’ panchina, dirottandosi ad Alessandria e Bologna. Ma lui era troppo sportivo per reggere alle istruzioni per l’uso del calcio nuovo, quello di adesso che tante belle cioè brutte cose è.
Polemiche da Zaccarelli nessuna mai, sbornie da successo o da crisi nemmeno. Sempre coscienza di valere, mai iattanza. Provò il passaggio a libero, qualcuno disse per allungarsi la carriera e non sareb-be mica stato peccato mortale, anzi. Fu subito bravo, pulito, regolare, un libero elegante di baffetti e movimenti.
A Torino infine la recita naturale del ruolo dell’ex, sempre disponibile e però mai scatarrante memo-rie ruvide o velenose. Sposato, due figli, con la moglie ha mandato avanti per anni un negozio di profumi in centro. Nessun giornalista ha mai osato chiamarlo Renato il profumiere (era l’uomo di cui Caterina de’ Medici si serviva per le sue trame chimiche alla corte di Francia) anche se Zaccarelli, con la sua pratica di essenza preziose, sa di buono dentro e fuori”.

Questo è anche un omaggio al grande Gpo, che a 85 anni ha battuto il Covid e l’ha raccontato. L’ha fatto anche con Zaccarelli, con la sua prosa ridondante e antica. Come un calcio che piaceva, con i numeri dall’1 all’11, meno pressing e ruoli più definiti.
Ripeschiamo da www.tuttotoro.it brani dell’intervista a Zaccarelli di Roberto Scussa, dell’ottobre 2008, in particolare sui derby con la Juve.
“Stagione 74/75, gara di ritorno: 3-2 per noi. Io ero appena tornato a Torino, in campo c’era ancora Agroppi. Fui io a segnare il gol della vittoria a un minuto dalla fine. Ricordo che era una giornata buia, piovosa”.
Fango sotto ai tacchetti, fatica, sudore e un gol vincente all’ultimo minuto: ci sono tutti gli ingredienti per un derby da Toro. “Sapori” che oggi non esistono più?
“Negli anni ‘70 e ancora negli anni ’80 tutto il calcio era diverso. Le sfide erano sentite da tutti, tifosi, dirigenti, calciatori, sia della Juve che del Toro, in una maniera differente, che non si può spiegare”.
La partita più brutta?
“Non ho dubbi: un derby di campionato in cui eravamo in vantaggio 2-0 e che poi perdemmo 4-2 (stagione 1981/82, gara di ritorno). Ma ricordando quella gara, ripenso anche con tristezza al povero Gaetano Scirea: ci fece due gol”.
L’anno dopo, 2-0 per Juve, tre gol in meno di quattro minuti per il Toro.
“Ricordo le facce dei giocatori della Juve, il loro stupore. Un gol, due gol, tre gol: non riuscivano a crederci”.
Stagione 85/86, 1-0 per la Juve, mancano 3 minuti alla fine…
“Leo Junior va a battere una punizione dalla sinistra. Lo seguo con lo sguardo e quando parte lui, parto anch’io: mi butto verso il secondo palo, il portiere respinge, la palla rotola dalle mie parti, entro in scivolata, è gol: pareggio”.

All’ultimo amarcord arriviamo a fatica, nella rete, ma è valsa la pena ripescare l’intervista di Emanuela Audisio pubblicata su Repubblica nel febbraio del 1986. La giornalista toscana è in pensione ma ancora una delle prime firme dello sport del quotidiano cult. Pezzo di letteratura sportiva, con qualche sforbiciata nostra.
“Renato Zaccarelli è alto un metro e ottanta. Ha gli occhi distanti, un naso sottile, una pelle chiara e ben curata e indossa abiti dal passato tutt’altro che dubbio. Sotto il cappotto di cammello porta un completo grigio doppiopetto. Perfetto. Nessuna stropicciatura, nessuna brutta piega. Forse in casa nei momenti privati gira anche con una veste da camera con le iniziali ricamate a mano. Ha un’apparenza “vecchio Piemonte”, di quando i figli ubbidivano e al genitore davano del lei. 
Zaccarelli emana profumo di Londra. Parla con le braccia ripiegate sotto le ascelle e come la maggior parte degli inglesi che si rispettino ha poco o quasi nulla da dire: alieno dai clamori esagerati e dal mito del grande uomo ha vissuto una vita che pare averlo toccato soltanto di striscio. Si ritiene un personaggio adatto alle biografie senza squilli, dove si nasce e s’invecchia quasi senza accorgersene con qua e là qualche dolore etichettato come dispiacere passeggero. Roba da dimenticare così come si dimentica una giornata nuvolosa. Abitudini di vita molto regolari. Sin dall’infanzia. E i primi soldi subito inviati alla famiglia. “Sono nato ad Ancona, mia madre era casalinga. Il calcio era lontano e dalle nostre parti assente. Per vedere qualche partita decente dovevamo spingerci fino a Bologna. No: mai da solo, sempre con i fratelli e con mio padre. Difficile sentirsi un predestinato in quelle condizioni. Senza tradizioni di città alle spalle, senza passato sportivo in famiglia. Tra l’altro in atletica sui 60 ostacoli andavo abbastanza bene, mi accontentavo e studiavo ragioneria. Altri anni”.
Uno che è nato nel ’51 come vede il calcio? “Con minor retorica degli altri. Soprattutto rispetto ai miei 35 anni. Ci si meraviglia della mia longevità, delle mie prestazioni. Che provincialismo di vedute! E Zoff e Mennea e Moser e Meneghin dove li vogliamo mettere? In quelli che fanno sport per la bontà d’animo di qualcuno? Suvvia, certa meraviglia è fuori luogo. Soprattutto dopo il tanto parlare sulle nuove metodiche di allenamento e dopo tanti applausi che quotidianamente destiniamo al progresso scientifico”. 
Sarà, ma tredici anni di Serie A non sono comunque uno scherzo. “All’inizio, a diciassette anni, lo erano. Nel senso che non pensavo sarei riuscito così bene. E quando nel ’68 finii a Catania, perché la telefonata del Torino arrivò con un minuto di ritardo e mio padre si era già impegnato, non smisi i miei studi. Il calcio di allora aveva meno garanzie, ma forse era più umano. Niente collegi, niente case-albergo asettiche, a Catania stavo da una signora, insieme ad altri tre ragazzi: ci ha fatto da madre a tutti. Così quando sono arrivato a Torino e mi hanno messo in un casermone insieme ad altri trenta ho sofferto. E non ho più studiato. Non ce la facevo. Peccato”. 
L’unico dolore? “Beh, a trentacinque anni non si può pensare di passare indenni dalla vita. Torino mi ha fatto male un’altra volta. E molto più pesantemente. Anni fa ho avuto una serie d’incidenti anche piuttosto gravi che mi hanno impedito di giocare come volevo. I tifosi non me lo perdonavano. Tra me e loro si è arrivati all’insulto, alla crudeltà. Sui pali della porta mi hanno fatto trovare la scritta “Zaccarelli vattene”. Ricordo benissimo quel giorno. Tornai a casa e dissi a mia moglie: basta, andiamo via, io non ce la faccio più a stare in questa città. Anche con Pianelli ho sofferto dei momenti brutti, la gente migliore andava via, ceduta ad altre squadre, ma i nostri tifosi continuavano a chiederci la luna. C’è una parte di tifo con cui non sono andato né andrò mai d’accordo. Con queste persone non firmerò mai trattati di pace”. E gli inizi? “Normali. Senza traumi. Anche grazie agli allenatori. A Novara ho avuto Carlo Parola, un gran signore. A Verona ho avuto Giancarlo Cadè, più signore di Parola. Mai un’alzata di voce, un urlo o una bestemmia, mai una volgarità. Era ed è rimasto un uomo molto gentile e molto buono. Per questo non ha avuto la fortuna che si meritava. Un buono in questo mondo non può sfondare”. 
E lei come si giudica?“Un regolare, uno costante. Alla lunga anche la monotonia diventa una qualità. Ricordo che la prima volta che giocai in Serie A cercai subito di capire qual era la differenza tra me e gli altri. Tra quelli che sono di A e quelli di B. Non me ne accorsi, ci volle un’altra partita. Erano in tutto e per tutto abbastanza uguali a me”.
E nella partita dopo? “Loro erano gli stessi, io ero diverso. Eccola qua la differenza: la costanza, la continuità, il giocare bene non una volta, ma cento, mille, quando i tuoi figli stanno male e anche tu sei in una domenica senza voglia. Ce ne sarebbero tanti di giocatori di Serie A in giro ma poi non reggono”. 
Parla per esperienza personale? “Anche. Io avevo un amico che prima stava qui con me e adesso è in serie C. Era più bravo di me, con più talento, a volte l’incontro all’aeroporto. Ma andiamo in posti diversi. E i miei posti sono migliori dei suoi. Lo saluto, con molta educazione perché nonostante tutto non mi sento superiore a lui, ma provo sempre un po’ di pena nel vedere come a volte la gente sciupi la sua vita. Essere sempre non buoni attori, ma attori professionisti è difficile”. 
La scuola del Torino serve? “A me è servita. Come è servito il rapporto con Radice. Come ieri è servito l’esempio che ho avuto da Ferrini, Agroppi, Cereser. La loro voglia di resistere al tempo e agli acciacchi non era soltanto una rabbia senza scopo ma la voglia di far vedere che non si arriva mai. Solo gli stupidi arrivano in fretta. Gli altri continuano a lavorare per migliorarsi. Ho detto migliorarsi, non guadagnare di più. Spesso le due cose non vanno d’accordo. Spesso gli applausi rovinano più dell’insulto. Ci dovrebbe essere qualcuno nel calcio di oggi stipendiato solo per farti di tanto in tanto qualche critica. Anche se non la meriti. Se non la meriti oggi la meriterai domani. Ma intanto ti aiuterebbe a non crederti un dio, un infallibile. Dietro le spalle è però essenziale avere una società seria, godere della loro fiducia e di quella dell’allenatore. Perché il tifoso deve sapere che a lui non tutto è consentito e che la società non è disposta a seguirli nella loro follia e nella loro bestialità. La società e per società intendo i dirigenti della squadra possono in questo campo fare molto”.
Adesso parlano anche di nazionale per lei. “Ci tengo molto. Sono disposto a fare tantissimo in campo per meritarmela, ma non farei una tragedia per l’esclusione. Anche perché oltre ai muscoli tengo anche la mente impegnata, ho un’attività extra-calcio con Roberto Salvadori che mi assorbe molto. O forse sono io che mi faccio assorbire, comunque c’è ed è importante, non è facciata, ma sostanza”. 
Un consiglio da dare? “Non saprei, tanto non li ascolta nessuno. Questi non sono più tempi del rispetto, tantomeno nel calcio. Credo che in fondo il problema del calcio attuale sia proprio questo: siamo tutti orfani di una grande figura, di uno che sappia dare esempio veri. A guadagnare di più abbiamo imparato, ma ci siamo fermati qui”.

Zaccarelli aveva la metà dei 70 anni di oggi. Il suo pensiero dell’epoca può servire al calcio odierno.

Vanni Zagnoli

Da “Assocalciatori.it”

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