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Ieri Pelè ha compiuto 80 anni, è O’ Rey, il re. In Italia, O’ Rey è Roberto Pruzzo, O’ Rey di Crocefieschi, per quanto segnava, 1281 gol in 1363 partite, dei quali 761 in 821 gare ufficiali. È anche chiamato la Perla Nera e per il settimanale americano Time è fra i 100 eroi e icone del secolo scorso. Ha vinto tre mondiali, a 18 anni in Svezia 1958, in Cile nel ’62 e in Messico nel ’70, smise relativamente presto, a 37 anni, nei Cosmos, di New York, dove chiuse la carriera, con le ultime due stagioni, dopo 17 nel Santos.
Era il miglior giocatore del mondo, prima di Maradona, oggi si pensa che Messi sia su quei livelli, ma con l’Argentina è stato solo finalista mondiale e ha inanellato tante delusioni. Lo stesso Cristiano Ronaldo come bomber è sui livelli di Pelè, ma la classe del brasiliano l’ha solo Maradona. Forse Cruyjff, che ha aperto un’epoca, del calcio totale olandese, il dibattito è aperto, da sempre. Per non parlare di Ronaldo e di Van Basten, penalizzati dagli infortuni.
Lo stesso Dieguito fa gli auguri a Pelè. “Voglio unirmi a questo omaggio universale”, scrive l’eroe di Messico ’86 sui propri social, accompagnando il messaggio con due foto che li ritraggono assieme.
Pelè e Maradona sono nati quasi a 20 anni esatti di distanza. A fine mese, il 30, sarà il Pibe de Oro a spegnere 60 candeline.
Stavolta iniziamo il racconto da chi l’ha visto giocare, ovvero Piero Mei, 79 anni il prossimo gennaio, editorialista de “Il Messaggero”.
“Pelè compie 80 anni. Almeno per le scartoffie dei burocrati, pure se digitalizzate. È nato il 23 ottobre 1940, ma l’impiegato scrisse 21, perché era duro d’orecchie o perché gli riusciva meglio scrivere l’1 in bella calligrafia. Non capì neppure il nome: il papà lo voleva chiamare Edison pensando che si fosse accesa una lampadina sul mondo, ma quello borbottò qualcosa e scrisse Edson. Pazienza, lo avrebbe portato per pochi anni. Poi sarebbe diventato Pelè. Pelè compie 80 anni ma non per il popolo del calcio: un supereroe non ha età. Ce l’hanno, forse, Superman o Batman per non dirne che due? “Ringrazio Dio di essere arrivato a questo punto in buona salute e lucido e spero che quando sarà mi accolga come fanno in tutto il mondo” ha detto Pelè. Ha anche aggiunto, un po’ blasfemo ma probabilmente veritiero, “sono più conosciuto di Gesù”. Per generazioni Pelè è il calcio.
Nel confronto, se la batte con Maradona, Napoli permettendo. C’è chi gli accosta o mette davanti Di Stefano o Cruyjff, i contemporanei sussurrano a mezza bocca Messi o Cristiano Ronaldo. Ma vuoi mettere tre mondiali vinti e tutti quei gol? Su questi numeri gli statistici s’azzuffano per qualche unità in più o in meno, ma conta poco o nulla. Perché i numeri non si addicono a Pelè. Perfino qualche santone della panchina di quelli fissati con gli schemi e guai a non rispettarli, non riuscirebbe a mortificarlo assegnandogli un ruolo: il suo ruolo era quello di essere Pelè. Quando in nazionale ha giocato a fianco a Garrincha ha sempre vinto: quaranta volte di seguito. A Burgnich, il terzino degli azzurri di Italia-Germania 4-3, cui toccò l’atroce e sublime destino di marcarlo (eufemismo) la volta dopo nella finale, forse è sempre comparso nei sogni e negli incubi: volava. Ha detto Burgnich: abbiamo visto arrivare il pallone, siamo saltati insieme, quando ho messo di nuovo i piedi a terra l’ho visto che era ancora lassù; volava, come se non fosse di carne e d’ossa come ogni uomo. Da farsi venire un complesso. Forse come quello che avrà tormentato per tutta la vita il figlio di Pelè che coraggiosamente volle fare il calciatore, ma per non reggere il confronto si mise tra i pali. Tutt’altra vita”.
Altro editorialista mito è Tony Damascelli, “Il Giornale”, classe 1949. Il titolo è “Pelè, icona e sovrano mai monarca e dittatore”. Gli 80 anni di chi ha riassunto il calcio in 4 lettere. Campione che unisce, leggenda che supera la verità”.
Qualche brano. “C’era la televisione in bianco e nero. E c’era Pelé. C’era la televisione a colori. E c’era Pelé. C’è, oggi, un tempo di mille altre cose e pensieri. E c’è ancora, sempre Pelé. Re e sovrano mai monarca e dittatore, nero di pelle in un’epoca impossibile per chi si portava addosso quel colore, icona come Marcellus Cassius Clay ma più universale dopo che Mohammed Alì si convertì all’Islam e rifiutò il Vietnam.
Quando la leggenda supera la verità è bello godere e sognare nella leggenda, così accadde il 19 novembre del ’69, quando il re segnò su calcio di rigore, con la maglia bianca del Santos, il suo gol numero mille senza che nessuno avesse la contabilità esatta di quel record. Ma era la fiaba da raccontare. Per venti minuti la partita venne interrotta e il re fu portato in trionfo sul prato del Maracanà, alveare di pazza gente. Pelé aveva allora ventinove anni, non era soltanto il ragazzino del passato, il campione del presente. Era già il calciatore del futuro.
Si può essere pro o contro Maradona, a favore di Cruyff, contro Di Stefano ma Pelé non divide, non prevede fazioni, opinioni differenti. È il football riassunto in quattro lettere, è la storia del gioco esaltata in un dribbling, in un tunnel, in un colpo di testa, in una rovesciata, è la recita dell’artista nell’aria del mondo. Le sue cosce ipertrofiche, il tronco potente, la fulminea e felina rapidità dei movimenti, quasi accucciato sull’erba, lo rendevano diverso fra gli uguali, il gol realizzato al mondiale di Svezia, nel Cinquantotto, fu la prima pagina della sua favola e racchiuse la bellezza di questo gioco, fu Vavà a rendergli il pallone, il ragazzo di diciassette anni lo raccolse stoppandolo di petto, anticipò l’arrivo goffo dell’armadio svedese Gustavsson, con il tocco perfido del sombrero, così definito, da quel giorno, il pallonetto sopra la testa, e con il piede destro scaricò alle spalle del portiere Svensson il gol del 3 a 1. Fu il primo coriandolo di un carnevale lungo e trionfante in tre mondiali.
In Inghilterra, nel ‘66, Pelé venne aggredito dagli avversari gelosi e invidiosi, fu il bulgaro Petkov a marchiarlo per primo, poi venne Joao Morais, un maniscalco portoghese che picchiò due volte, in modo feroce e premeditato, il ginocchio del re, fu la fine del mondiale per il Brasile, per il suo campione e per la giustizia del football violentata dall’arbitro inglese McCabe che non prese alcun provvedimento nei confronti del killer. Fu il funerale dopo la festa. Non fu quello a fermare Pelé, quattro anni dopo Tarcisio Burgnich tentò di salire nell’aria dell’Azteca per impedire al monumento di colpire di testa, il pallone finì avvelenato e velenoso alle spalle di Ricky Albertosi, fu il terzo mondiale vinto da Pelé, così chiamato dai suoi compagni di scuola, fanatici, come lui, di Bilé, portiere del Vasco de Gama. L’elettricità era appena arrivata nel municipio di Tres Coracoes, nel Minas Gerais e, all’ufficio dell’anagrafe, Joao Ramos do Nascimento e sua moglie Celeste si presentarono per iscrivere il neonato al quale venne dato il nome in omaggio all’inventore statunitense Thomas Alva Edison, storpiato in Edson. Sarebbe stata luce anche nel football, gli ottant’anni compiuti oggi hanno il tulle della malinconia, le gambe del re non sono più quelle del sombrero svedese, i pensieri corrono come i mille e più gol, sono i finestrini di un treno che viaggia veloce davanti agli occhi di un testimone che può riconoscere tutti i passeggeri di quel convoglio. Sono i viaggiatori di un’epoca irripetibile, Pelé è stato il narratore di un calcio che non è mai finito e che mai finirà.
Lo ha traghettato in America, ai Cosmos di New York, fu Cristoforo Colombo di un gioco che gli yankee snobbavano, lo ha illustrato nel film di John Huston “Fuga per la vittoria”, con una rovesciata spettacolare che chiuse la bocca ai gerarchi nazisti. Siamo stati fortunati a essere schiavi noi di Pelé, riscatto di un ragazzo che ha regalato la realtà a un Paese, il Brasile, che conserva profumo e fascino lontani, il riscatto di un uomo che ha offerto sogni al resto dell’universo affollato dagli appassionati per questo sport unico. Ho avuto il privilegio di conoscere, frequentare, diventare amico del re, fuori dai campi di football, di aiutarlo a curare una ferita al muscolo della gamba che non gli avrebbe permesso di partecipare alla festa dei suoi cinquant’anni, nello stadio di San Siro, su quello stesso prato dove Giovanni Trapattoni passò alla storia, proprio per aver fermato O’ Rey. Conservo un quadrifoglio racchiuso in un rettangolo plastificato, con la firma Do amigo Pelé, è una specie di mio Oscar o Nobel privato, personale, memoria di giorni, di sere, di partite, di gol, infine una fetta di vita che ha coinvolto quattro generazioni. Edson Arantes do Nascimento vivrà nel silenzio queste ore. L’urlo della folla che lo ha da sempre accompagnato, oggi ha un suono lontano. L’ombra del mito continua ad allungarsi nel tempo infinito”.
Su La Gazzetta dello sport, Andrea Schianchi intervista Tarcisio Burgnich, sul primo gol della finale mondiale di Messico ’70, pareggiata da Boninsegna e poi finita 4-1.
Burgnich, cosa ricorda?
“Fallo laterale per loro, sulla fascia sinistra. Lo batte Tostao che appoggia a Rivelino. Un tocco e poi il cross “a piombo” che arriva sul secondo palo. Io avevo immaginato che lo piazzasse al centro e allora avevo fatto un passo in avanti e mi ero staccato dalla marcatura di Pelé. E invece dove a finire il pallone? Proprio dove io non potevo arrivare. E poi Pelé ha fatto quel balzo che tutti hanno visto in fotografia e io ho cercato di ostacolarlo, ma chi ci riusciva?”.
Lei non era destinato alla marcatura di Pelé.
“Inizialmente doveva prenderlo Bertini, perché partiva da dietro. Poi si è spostato in attacco e allora, come succedeva sempre, è toccato a me. Quelli più forti li beccavo tutti io. Valcareggi mi ha gridato di occuparmi di Pelé e io mi sono incollato a lui, però ho fatto quel passo maledetto…”.
Ma il destino della partita non sarebbe cambiato.
“Credo proprio di no, loro erano fortissimi. E noi eravamo cotti. Contro la Germania avevamo dato tutto, anche quello che non avevamo in corpo. E io mi ero tolto una bella soddisfazione, avevo segnato il 2-2 ai supplementari. Per un difensore non era tanto frequente fare gol, a quei tempi”.
Aveva marcato Gerd Muller, poi Pelè.
“Il più grande di tutti. Era completo: destro, sinistro, testa. Faceva gol in qualsiasi modo. E poi aveva uno scatto bruciante e un dribbling micidiale. Mai visto uno così, eppure ne ho marcati di fuoriclasse… Sivori, ad esempio, era fantastico, ma sapevo che usava soltanto il sinistro e quindi riuscivo a cavarmela. Con Pelè era impossibile: se gli impedivi di usare il destro, lui lavorava il pallone con il sinistro. E poi, se arrivava un cross, di testa non ti perdonava mica. Ah, quel passo in avanti…”.
Che cosa aveva Pelé in più?
“La velocità di esecuzione. Pensava e calciava in una frazione di secondo. Nessuno è stato come lui. Eppure ho marcato anche Eusebio, anche Cruijff. E poi O Rei era un uomo-squadra: una sicurezza per i compagni e un tormento per gli avversari. La sua presenza incuteva timore. Se avesse giocato contro le difese di oggi, più ballerine di quelle di una volta, di gol ne avrebbe segnati tremila…”.
Fra i tanti articoli di pregio usciti in questi giorni scegliamo infine brani di Enzo Palladini, per il sito di Sportmediaset.
“È difficile rendere omaggio alle persone straordinarie perché non si sa nemmeno da dove cominciare. La frase è dello scrittore svizzero Joel Dicker, ma si addice perfettamente a uno come Pelé. Si comincia dai gol segnati? Si comincia dai titoli vinti? Si comincia dalle leggende che gli girano intorno?
Pelé è il calcio. Affermazione secca e difficilmente controvertibile. Sapeva fare tutto. Usava i piedi come Benvenuto Cellini usava lo scalpello, come Jimi Hendrix usava la chitarra, come Aladino usava la lampada. Destro e sinistro, senza apparenti differenze. Punizioni e rigori, con immensa disinvoltura, senza alcuna emozione. Gol in quantità industriale, assist come se piovesse. Spettacolo, sempre. E poi il colpo di testa, una specialità che normalmente un soggetto di 173 centimetri considera tabù assoluto e che invece in questo caso si è trasformata in leggenda.
Recentemente in un programma di SporTv il giornalista Sergio Serra Filho ha paragonato le caratteristiche di Pelè con quelle dei più grandi giocatori della storia, arrivando alla conclusione che O Rei è la sintesi di tutti i grandi geni della storia.
La rivalità con Diego. Pelé è stato il giocatore più forte della storia del calcio. Sì, no, ni. Forse. O forse no. Per i brasiliani lo è stato, per gli argentini ovviamente no. C’è stato Maradona tra il mito assoluto e l’elevazione a divinità. Pelé o Maradona, Maradona e Pelé. Tempi diversi, diversa maniera di interpretare il calcio. Tra brasiliani e argentini, tutto un mondo che dice la sua. Ma non se ne verrà mai a capo. Pelé dal punto di vista dello spettacolo puro è stato sicuramente il numero uno della storia, se non altro perché il Santos, per potergli pagare uno stipendio competitivo, per mettersi al sicuro dagli assalti dei ricchi club europei, si autoinfliggeva lunghe tournèe di pura esibizione in giro per il mondo. Per 45 minuti di Pelé in uno stadio si pagavano cifre astronomiche e il Santos incassava tutto quello che poteva anche a costo di giocare due amichevoli nella stessa giornata.
Maradona ha vinto un solo Mondiale ma l’ha vinto da solo. Pelé ne ha vinti tre di cui due da protagonista assoluto, ma nel 1970 probabilmente faceva parte della squadra più forte di tutti i tempi. Pelé o Maradona, Maradona o Pelé, da lì non si scappa. Gli altri, Di Stefano, Cruyff, Eusebio, Ronaldo fenomeno, gli altri fanno da picchetto d’onore insieme agli eroi contemporanei Messi e Cristiano Ronaldo. Pelé e Maradona sono il calcio, ognuno a modo suo e ognuno con le sue peculiarità.
La curiosità è che per un breve periodo i due sono stati contemporaneamente in attività da calciatori professionisti: nel 1977 l’ultimo Pelé stava raccogliendo gli ultimi dollari nei New York Cosmos mentre Dieguito cominciava a incantare con la maglia dell’Argentinos Juniors.
Pelè nacque a Très Coraçoes, una cittadina di circa 80.000 abitanti (80 anni fa erano la metà della metà), a sud dello stato di Minas Gerais. Il 23 ottobre del 1940, quando in Europa stava per esplodere definitivamente la Seconda Guerra Mondiale, in quella catapecchia nasceva Edson Arantes do Nascimento, futuro re del calcio.
Quel treno per San Paolo.
Un luogo: Baurù. Un nome: Waldemar de Brito. I segni del destino. Baurù (oggi quasi 400.000 abitanti) è la città dello stato di San Paolo in cui la famiglia Arantes do Nascimento si trasferì quando Edson (che non era ancora Pelé) era ancora un bambino e papà Dondinho andò a giocare con il Baurù Atletico Clube. Waldemar de Brito invece era stato un grande attaccante con le maglie di San Paolo, Botafogo, Flamengo, Fluminense, Portuguesa e Palmeiras oltre che San Lorenzo (Argentina), 18 gol in 18 partite con la maglia della Seleçao. Nel 1954 era l’allenatore delle giovanili del Baurù Atletico Clube, squadra nella quale si trovò a disposizione un ragazzo di nome Dico che divenne in breve periodo il suo pupillo. Dico era l’appellativo con cui era conosciuto proprio Edson Arantes do Nascimento. Waldemar de Brito si rese conto velocemente quanto fosse forte quel ragazzo e all’inizio del 1956 gli disse: “Vèstiti bene, domani andiamo a Santos”. Un viaggio interminabile, oltre 450 chilometri su un treno a carbone, ma alla fine di quel lungo percorso c’era la gloria. Edson-Dico venne preso subito dal Santos e alloggiato nel pensionato del club insieme agli altri ragazzi. Il 7 settembre del 1956, a 16 anni ancora da compiere, l’esordio tra i professionisti in un torneo disputato a Santo Andrè, contro il Corinthians (ma non quello famoso, un Corinthians più modesto), esordio con gol per il ragazzo che nel frattempo si era guadagnato il nomignolo di “Gasolina”, benzina, per la sua energia inesauribile.
Però per tutta la storia dell’umanità, Pelé sarà Pelé. Un soprannome che al suo legittimo proprietario sta cordialmente sulle scatole, tanto per usare un eufemismo. Ormai lo ascolta da più di 70 anni e ci ha fatto l’abitudine, ma nasce da un atto di bullismo, come lo chiameremmo oggi, o più ancestralmente da quella tendenza che i bambini manifestano da sempre e che li porta a denudare le lacune del prossimo. Il piccolo Edson aveva qualche piccolo difetto di pronuncia. Dondinho aveva un avversario contro cui faceva sempre fatica a segnare, era il portiere Bilè. Edson ne parlava con i suoi amici ma anziché Bilè diceva Pilè. Così io ragazzini lo chiamavano Pilè per farlo arrabbiare. Poi Pilè è diventato Pelé e ha cancellato Dico.
I tre titoli mondiali.
Sylvio Pirilo era il selezionatore della Nazionale brasiliana nel 1957. Mancavano ancora parecchi decenni all’invenzione di Internet e all’idea di un’informazione globale in tempo reale. Pirilo però si accorse velocemente che nel Santos stava crescendo un fenomeno così lo fece esordire il 7 luglio del 1957, non ancora diciassettenne, contro l’Argentina. Pelè non riuscì a evitare la sconfitta (2-1) ma segnò subito il suo primo gol con la divisa della Seleçao. In breve tempo, Pelè era titolare in Nazionale. Vicente Feola, successore di Pirilo alla guida della Seleçao, lo portò al Mondiale di Svezia. Era il giocatore più giovane che avesse disputato una fase finale della massima manifestazione calcistica e il mondo si inchinò subito a lui: gol decisivo contro il Galles, tripletta contro la Francia, doppietta in finale contro i padroni di casa della Svezia. Il 29 giugno 1958, data della finale, Pelé aveva 17 anni e 249 giorni, era il giocatore più giovane ad avere disputato una finale. Record mai battuto. Molto meno suo il secondo titolo mondiale, quello del 1962 in Cile, un assist per Zagallo nella partita d’esordio e un infortunio molto serio nella seconda gara contro la Cecoslovacchia. Fine del Mondiale, poi vinto dal Brasile con le magie di Garrincha e del suo sostituto Amarildo, che in seguito avremmo ammirato in Italia con le maglie di Milan, Fiorentina e Roma. Poi (con un altrettanto sfortunato Mondiale del 1966 in mezzo) la meravigliosa sinfonia del titolo vinto nel 1970: gol contro la Cecoslovacchia, doppietta contro la Romania, vari assist nel corso delle altre partite e infine gol in finale contro l’Itali.
Nei favolosi anni ’60, sia l’avvocato Agnelli sia Angelo Moratti provarono a portarlo in Italia mostrandogli assegni in bianco su cui lui stesso avrebbe potuto scrivere una cifra a piacere. La tentazione c’era, ma le speranze di Juventus e Inter andarono perdute perché un decreto del Governo brasiliano vietò l’esportazione di quello che in quel momento era il bene più prezioso esistente sul territorio nazionale. Pelè, appunto.
Chiuse in America, nel ’77 diede l’addio all’attività agonistica con una partita-tributo (Cosmos-Santos) al Giants Stadium di New York davanti a 75000 spettatori adoranti.
Cosa abbia fatto Pelé “da grande” non è facile da spiegare. Sostanzialmente è vissuto di rendita, ha sfruttato il fatto di essere Pelé. Ha recitato in “Fuga per la vittoria” insieme a Sylvester Stallone e in diversi altri film tra cui cinque sulla sua vita. C’è stata poi una parentesi politica. Il 1° gennaio 1995 elezione a ministro straordinario per lo sport in Brasile. Ha portato avanti il progetto della cosiddetta “legge Pelé” sulla riforma del professionismo nel Paese. Una legge poi parzialmente modificata e approvata con il nome di “legge Zico”. Nell’aprile del 1998, Pelé si dimise dall’incarico e chiuse la sua carriera politica. Da qui in poi soprattutto bella vita e lavori di rappresentanza per grandi aziende multinazionali.
Per due volte nella vita, Pelé ha ricevuto la telefonata che nessuno vorrebbe mai ricevere. Dalla Banca. “Buongiorno, la avvisiamo che il suo conto corrente è completamente prosciugato”. Due volte, durante l’attività agonistica. In entrambi i casi aveva affidato il proprio patrimonio ad amici che sembravano fedeli nei secoli e che invece hanno aspettato il momento giusto per portargli via tutto. Due volte a zero, due volte ha ricominciato da capo. Con rassegnazione. Sono tre le D che hanno caratterizzato la sua vita in questi splendidi 80 anni: Denaro, Dio (è cattolico fortemente credente) e Donne. Ne ha avute tante, quasi tutte bionde. Ne ha sposate tre. La prima, Rosemeri dos Reis Cholbi, gli ha dato tre figli: Edson (che ha fatto il portiere nel Santos e ha dato non pochi problemi nella vita) e due donne, Kelly Cristina e Jennifer. Il matrimonio con Rosemeri è durato dal 1966 al 1978. Dopo una quindicina d’anni di spirito libero e indipendente (molto pubblicizzata la sua storia d’amore nel 1990 con miss Brasile Flavia Cavalcanti), nel 1994 è arrivato il secondo matrimonio con la cantante gospel-religiosa Assiria Nascimento, con altri due figli: Joshua e Celeste. Dopo la separazione da Assiria nel 2008, Pelè ha iniziato nel 2010 la relazione con Marcia Aoki, imprenditrice di origine giapponese di 33 anni più giovane rispetto a lui, sposata nel 2016 a 75 anni d’età”.
Pelè è unico, insomma, dentro e fuori dal campo. Ha una storia romanzesca, che vale sempre la pena leggere.
Vanni Zagnoli
Da “Assocalciatori.it”