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Il mito compie 60 anni e resta intatto, nel suo fascino. Paolo Rossi è l’eroe del mundial spagnolo del 1982, poi commentatore di punta di Sky e da due stagioni di Mediaset premium.
Pablito è fra gli sportivi più popolari al mondo, richiestissimo a convention, momenti di sponsor e comunicazione. Viene celebrato da una mostra, a Sirmione del Garda, in piazza Carducci, sino al 9 ottobre. Poi si sposterà a Bruxelles, Monaco di Baviera, Montecarlo, New York e Roma. L’allestimento è curato dall’associazione Elle2A e dalla fondazione Paolo Rossi, presieduta da Luca Pelizzon. Al termine del tour, sarà allestito un museo permanente, dove verranno raccolti anche i ricordi e i cimeli di ogni tappa.
Festeggia in famiglia, assieme alla moglie Federica, alle figlie Sofia Elena (5 anni) e Maria Vittoria (7) e ad amici.
“E’ questo il regalo più bello – racconta -. Non essendo un materialista, ciò che prediligo è stare con le persone più care. Nella mia vita ho sempre privilegiato i rapporti umani, dunque condividere i momenti belli, come un compleanno importante. Cercavo serenità, l’ho trovata”.
Moltissimi gli auguri che arrivano. “Mi festeggiano alla grande, ringrazio tutti. Fa piacere essere ricordato, restare nel cuore dei tifosi e anche della gente comune, a distanza di decenni”.
Sono due gli allenatori determinanti per la sua ascesa: Giovambattista Fabbri e Bearzot.
“Avevo 20 anni quando Gb al Lanerossi Vicenza mi cambiò ruolo, da ala destra a centravanti, esaltando le mie qualità. Gli bastarono due allenamenti, per capirlo: feci gol subito in Coppa Italia, poi andammo a vincere la serie B con 21 gol miei. Ha rappresentato un papà, in tutti in sensi, lo devo sempre ringraziare”.
Quel Vicenza arrivò secondo in serie A, nel ’77-’78, dietro alla Juve. Divenne Real, perchè giocava come nessuno, e aveva questo undici di base, secondo l’1-3-3-2-1, perchè allora si giocava con il libero staccato dietro: Ernesto Galli; Carrera; Callioni, Prestanti, Lelj; Faloppa, Guidetti, Salvi; Cerilli, Filippi; Rossi. Si rivelò anche Luciano Marangon, 22 anni, a sinistra, cosicchè Lelj passava a destra, e trovarono spazio anche il mediano Mario Guidetti, l’interno Paolo Rosi e Massimo Briaschi, che poi avrebbe raggiunto Rossi alla Juve.
Il capitolo leggendario venne scritto da Pablito con il ct più amato, Enzo Bearzot.
“Ha sempre creduto nelle mie qualità e alla fine l’ho ripagato con il mundial, i 6 gol e il titolo di capocannoniere”.
Pablito non ha rimpianti. “Una volta lasciato il calcio, ho scelto di staccare un po’, impegnandomi in attività imprenditoriali. Non ho voluto fare l’allenatore né il dirigente, ruoli che non mi sento di portare avanti”.
Al punto che ora Rossi è impegnato in un’attività fuori dai riflettori. “A Perugia abbiamo avviato l’accademy Paolo Rossi, scuola calcio diversa, aperta anche a bambini e ragazzi stranieri, che negli anni potranno frequentare l’università internazionale. Mi auguro di ampliare il progetto e lanciare l’accademy anche in altre città italiane”.
Abita in Toscana, nel Chianti.
“Dopo 5 operazioni, posso solo dare il calcio d’inizio alle partite in giro per il mondo, con i vecchi compagni. Ma non ho 60 anni, sono tre volte 20. Tre come le donne con cui vivo, dopo il primo matrimonio e il primo figlio, Alessandro, 33enne. Queste bimbe mi regalano sensazioni indescrivibili, quando le accompagno a scuola o le vado a prendere. Sono il segreto del mio spirito”.
Beh, è normale, quando la paternità arriva in età avanzata, anche se non è la prima. Ed è così anche per Paolorossi, perchè a lungo si pronunciava così, tutto d’un fiato, come Giggiriva.
“Faccio 50 mila chilometri l’anno in macchina perchè oltre l’agriturismo vicino a casa, seguo le accademie calcio Perugia, le mostre sulla mia carriera in giro per l’Italia e presto a Montecarlo e Bruxelles. Inoltre da 10 anni vado in tv, a Milano, per commentare la Champions”.
Ora gli hanno proposto il film sulla sua vita, per il cinema o una fiction tv, partendo dalla famiglia. Con quella Nsu Prinz verde, che farebbe ridere Gene Gnocchi, dal momento che il comico fidentino spesso ha piazzato questa battuta, nei suoi monologhi: “La Nsu Prinz di Prince”.
“E’ la più brutta auto che abbia mai visto – sorride Paolo Rossi -, eppure mio papà ne era orgogliosissimo, quando veniva a vedermi giocare le prime partite. E mia mamma, a 90 anni, la ricorda benissimo”.
Rossi è diventato Rossi a Torino, nella Juve rivalissima della Fiorentina, squadra di riferimento per chi è nato a Prato, poi diventata provincia e forte di una squadra che dal ’77 è ininterrottamente fra i professionisti.
Paolo aveva lo svedese Kurt Hamrin come idolo. “Sognavo di diventare come l’uccellino, perché ero un’aletta veloce, con lo stesso numero 7”.
Declina a memoria la squadra che andavo a vedere nel 1969, quando vinse il secondo scudetto: “Superchi; Rogora, Mancin; Esposito, Ferrante, Brizi; Rizzo, Merlo, Maraschi, De Sisti, Amarildo o Chiarugi”.
Tutti viventi, a parte Ugo Ferrante, lo stopper scomparso nel 2004.
Rossi iniziò nel Santa Lucia, nel Pratese, a 11 anni passò all’Ambrosiana, poi un quadriennio alla Cattolica Virtus, squadra fiorentina.
“A 16 anni arrivai alla Juve, ma raramente trovavo la convocazione in prima squadra”.
Fu così che andò in prestito al Como, nel ’75-’76, con le prime 6 gare da professionista.
“Chiesi al presidente Giampiero Boniperti di trovarmi un’altra squadra, mi propose la B a Vicenza e fu la mia fortuna, con il passaggio a centrattacco. Fui capocannoniere e titolare in nazionale, al mondiale del ’78”.
Dove Rossi a 22 anni dà spettacolo, con l’Italia quarta e il blocco juventino: Zoff; Gentile, Cabrini; Benetti (Cuccureddu), Bellugi, Scirea; Causio (Claudio Sala), Tardelli, Rossi, Antognoni (Zaccarelli), Bettega (Graziani).
Sembra di sentire Nando Martellini declamare la formazione, fra l’1-0 all’Argentina, poi campione, e la sconfitta con l’Olanda, 2-1, bissato nella finale per il terzo posto, a favore del Brasile.
Fu 38 anni fa che il mondo scoprì Rossi, soprannominato Pablito da Giorgio Lago, poi giornalista del Gazzettino del nordest. “Da quelle settimane argentine per tanti sono diventato Pablito e a me quel nome piace. Sembra che il tempo si sia fermato e certe persone mi ringraziano come se fosse ieri”.
In mezzo ci furono le famose buste nel calciomercato, con 2 miliardi e mezzo di lire, valutazione vertiginosa, per l’epoca.
«Nessuno pensava che il presidente biancorosso Giussy Farina mettesse quella cifra, nemmeno la Juve. A ragion veduta, forse, fu anche un azzardo da parte sua».
Il mito di Rossi è alimentato anche dalle cadute, la squalifica per il calcioscommesse, con l’esclusione dall’Europeo del 1980, in casa. Rossi aveva 24 anni e teoricamente era al top, mentre per Italia 90 aveva già smesso, con quelle ginocchia fragili.
“Due anni di squalifica, senza avere commesso reati. Fui condannato per una stretta di mano con una persona presentata da un compagno di squadra, con poche parole di circostanza. E anche se poi la stessa persona ritrattò, lo stop rimase. La cosa peggiore riguarda i sospetti, lo sguardo della gente”.
Rossi aveva preferito restare a Vicenza, anzichè tornare alla Juve, ma i biancorossi passarono da quell’incredibile secondo posto alla retrocessione in B nonostante 15 suoi gol. E neanche al Perugia andò benissimo, dal momento che gli umbri venivano dal secondo posto del 1978-79 (da imbattuti, cosa mai successa nella storia) all’8° posto.
Quel grifone schierava: Malizia; Nappi, Ceccarini; Bagni, Della Martira, Frosio; Butti, Dal Fiume, Rossi, Goretti, Casarsa.
Il Perugia venne poi penalizzato di 5 punti, come Avellino e Bologna, e la stagione successiva retrocedette, mentre Rossi si fermò sino all’82.
“Eppure dell’Umbria conservo bei ricordi, al punto di avere aperto lì l’accademy”.
Al mondiale passò dalle critiche per l’insistenza di Enzo Bearzot all’immortalità.
«Nelle partite del girone di Vigo non stavo bene, Causio, Cabrini e Tardelli scherzavano, ma con affetto. Fu il ct a credere in me, a oltranza, Bearzot era coerente, magari testardo, ma proprio per questo era amato. Mi sbloccai con la tripletta al Brasile, fu una partita straordinaria, di tutti, contro una squadra fenomenale. Il mister venne presto a dirmi di pensare alla semifinale con la Polonia, per mantenere alta la tensione. E così battemmo anche la Germania”.
E all’epoca l’esaltazione popolare fu totale.
“Furono le vittorie del riscatto e dell’orgoglio. E poi il presidente Sandro Pertini, quella partita a carte in aereo… Fu un momento di unità collettiva del Paese, dopo gli anni di piombo. La gente si riversò in strada, fu naturale festeggiare in piazza. C’era bisogno di ottimismo, contribuimmo anche noi. In quei 40 giorni avevo solo una cassetta, in camera ascoltavo “Sotto la pioggia”, di Antonello Venditti”.
Nell’83, il dramma dell’Heysel, con la prima coppa dei Campioni della Juve, contrappuntata dalle 39 morti. “Non dimenticherò mai le lenzuola che coprivano i corpi fuori dallo stadio”.
Al mondiale del Messico ’86 non giocò e l’Italia uscì contro la Francia, con un secco 2-0.
“Avevo 30 anni, ma ero come un turista, perchè Bearzot mi avvisò che non mi avrebbe utilizzato, accettai per riconoscenza. A novembre tornerò in Messico, per entrare nella loro Hall of Fame, con Ronaldo, Zico e Rummenigge”.
Le ginocchia non reggevano più, così Rossi passò al Verona di Osvaldo Bagnoli, dove chiuse nell’87.
“Non potevo fare altrimenti, ma non ho rimpianti”.
Pablito si rivede in Giuseppe Rossi, tornato in Spagna, al Celta Vigo.
“Pepito aveva grandi qualità, mi rivedo in lui, ma non ha avuto la mia fortuna e mi dispiace”.
Il portiere che l’ha fatto dannare di più è Zoff.
“Poi per fortuna ci ho giocato spesso assieme. Dino ha fatto la storia, è stato straordinario in tutto. E i difensori marcavano in maniera molto più ferrea di oggi, Vierchowod e il tedesco Karl Heinz Forster avevano qualcosa in più”.
Oggi il tifo di Rossi è legato a due squadre.
“Al Vicenza, che vorrei rivedere in A, e alla Juve, che mi prese e riprese”.
Intanto i calciatori sono cambiati.
«Decisamente. Noi eravamo giovani ma già adulti. Crescevamo giocando a calcio nelle strade, tutto quanto abbiamo ottenuto ce lo siamo sudato. A 16 anni eravamo già adulti. Ora si gioca un calcio molto diverso, in cui i calciatori sono divi a 20 anni e guadagnano milioni. Tutto questo non aiuta a maturare».
Fra i simboli positivi c’è Dybala.
“Spontaneo e corretto, in campo, bello anche da vedere. E’ anche un bravo ragazzo, un buon esempio”.
Vanni Zagnoli