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A inizio ottobre è morto Roberto Anzolin, vicentino di Valdagno, a lungo portiere della Juve. Il padre Bruno giocò come centrocampista nel Vicenza, in B, negli anni ’30. Aveva già rischiato di perdere la vita il 31 ottobre del 1997, mentre era in vacanza in montagna, venne colpito da un principio di infarto: conseguenze più gravi furono evitate grazie al tempestivo intervento del personale medico.
Čestmír Vycpálek, suo allenatore al Palermo, lo ha descrisse così: “Fra i pali era agile come un gatto, praticamente imbattibile, schizzava da un palo all’altro con guizzi felini. Nelle uscite basse era impeccabile, non altrettanto nelle mischie e nelle uscite alte”.
Era soprannominato La zanzara per via del suo fisico filiforme. Esordì nel Marzotto Valdagno, dal 1956 al ’59, per passare poi al Palermo in cui giocò per un biennio. Costò 40 milioni di lire, 5 in più di quanti ne offrì il Milan. Dalla Sicilia arrivò alla Juve, in cambio di Tarcisio Burgnich (nientemeno…) e dei prestiti di Carlo Mattrel e dello svedese Rune Börjesson, più un conguaglio di 100 milioni.
A Torino divenne uno dei punti fermi per tutti gli anni ’60, perdendo la maglia di titolare solo alla 9^ stagione, in favore di Roberto Tancredi. Vinse la coppa Italia ’64-’65 e lo scudetto della stagione 1966-1967. Giocò poi per una stagione con l’Atalanta, in B, venne promosso e restando imbattuto per 792’. Passò al Vicenza come secondo portiere, per chiudere in C, con Monza, Riccione e Juniorcasale.
Il cognato, presidente del Valdagno, lo volle in sostituzione del portiere infortunato, in promozione: era il 1984-1985 e Anzolin aveva 46 anni, giocò 26 gare, subendo solo 4 reti, un record.
Con l’Italia, 4 presenze in Under 21 e altrettante nella Nazionale di B. Con la rappresentativa assoluta, giocò in amichevole contro il Messico, il 29 giugno 1966, subentrando a Enrico Albertosi. Era nella rosa del Mondiale del ’66, in Inghilterra.
Come allenatore guidò il Pro Gorizia, da cui fu esonerato con la squadra in testa al campionato 1981-1982, a +6 sulla seconda. Passò tra i giovani, per 7 stagioni alle giovanili del Chiampo, vicino a Valdagno. Dove retrocedette in D, alla guida della prima squadra e poi aprì una scuola calcio.
Bei ricordi di Anzolin arrivano da ilpalloneracconta.blogspot.it, che così si raccontava. “Avevo diciotto anni, stavo attraversando le cinquantadue Gallerie del Pasubio, quelle famose del 1915-18 sulle Piccole Dolomiti. Era buio. Presi una capocciata tremenda. Qualcuno mi toccò la mano: Ti aiuto io. Era una ragazza. L’ho sposata”. Si chiama Gabriella e mezzo secolo dopo, in salotto, precisa sorridendo: “Ma non subito. L’ho sposato al suo secondo anno di Juventus, perché se fosse andato male, avrebbero dato la colpa a me. Infatti prese cinquanta goal, la Juventus finì quart’ultima. Peggio di così non poteva andare. Allora l’ho sposato”.
“Mio padre” – riprendeva Anzolin, ad aprile – “era pettinatore alla Marzotto. Per un veneto di diciannove anni, andare in Sicilia, nel 1959, non era uno scherzo. Partii con mio padre. Piansi in treno da Padova a Roma, dove un dirigente del Palermo, venne a prenderci con un’Aprilia da corsa che ci portò a Napoli. Viaggiava come un matto, lo pregai: Piano, ho una carriera davanti! Sbarcato a Palermo, mi portarono a mangiare la pasta con le melanzane a Mondello. Vivevo allo stadio, nelle stanze che avevano ricavato per gli scapoli vicino alla tribuna della Favorita. Ero in stanza con Sergio Carpanesi. Toros mi faceva da fratello maggiore, mi portava al mare e a messa. All’esordio a Bari mi fregò un autogol di Bernini. A Torino, contro la Juventus, parai tutto, anche un rigore di Cervato. Mi arresi solo a Sivori, in fuorigioco di cinque metri”.
“Ricordo le mie due stagioni nel Palermo con tenerezza e gratitudine: ricordo la Topolino che mi prestava Malavasi per spostarmi in città, l’amico fraterno Giorgio Sereni, che arrivò con me nel Palermo e che, come me, fece il militare a Viterbo. Ricordo soprattutto un campione, Ghito Vernazza, un vero trascinatore, un leader come si dice oggi. Poi ricordo la città, la Curva Nord, il suo calore straordinario, quel suo spiovere quasi sul campo con la sua passione scatenata. Non dimentico, soprattutto, che senza quel Palermo non ci sarebbero stati la Juventus ed i miei dieci anni bianconeri. Con allenatori strepitosi come Amaral, che era un padre per tutti noi, oppure Heriberto Herrera che, al contrario, era un generale, duro, diritto come un fusto, si spezzava ma non si piegava. Ci faceva lavorare duro, Heriberto. Ma che soddisfazioni, come riuscì a potenziarmi con i suoi allenamenti, come mi migliorò anche nelle mischie e nelle uscite! Gli debbo molto. Ho giocato con compagni grandi, grandissimi, i più forti del mondo, come Sivori e Charles fuoriclasse inarrivabili, anche oggi sarebbero i migliori, parola mia. Forse un asso solo li superava. Perché era anche un genio: Schiaffino, uno che difendeva e subito dopo piazzava l’assist vincente. No, non mi lamento della mia carriera, mi ha dato tutto, la possibilità di conoscere il mondo, di vestire l’azzurro. La Nazionale, forse l’unico cruccio: prima ero troppo giovane, poi troppo vecchio. Ma è solo un piccolo neo”.
“Un giorno, un dirigente palermitano mi sussurrò: Ti abbiamo venduto alla Juventus, ma non dirlo, se no scoppia la rivoluzione. La gente mi amava. A Torino mi sedetti in uno stanzone davanti a Boniperti ed altri quattro dirigenti. Mi chiesero: Quanti goal pensa di prendere? Risposi: Non so, 20-25. Ne avrei presi il doppio: quartultimi. Poi parlammo di soldi. A Palermo prendevo cinque milioni, ne chiesi quattordici. Si alzarono in piedi tutti e cinque: Lei è pazzo! Poi, tra una clausola e l’altra, ne presi anche di più. Charles si affezionò subito a me. Ci cambiavamo al Comunale, poi attraversavamo la strada per allenarci al Combi. Charles mi sollevava con un braccio solo e mi portava dal Comunale al Combi così, parallelo al terreno, come fossi un tronco. John, mettimi giù che mi spezzi tutto!, gli dicevo. E lui: Anzolino, tu vieni con me. Ai quarti di Coppa dei Campioni trovai il Real Madrid. Febbraio 1962. A Torino presi goal da Di Stefano. A Madrid vincemmo noi con Sivori. Nicolè sbagliò un goal al 90°, così ci toccò lo spareggio di Parigi, che perdemmo. Ma al Bernabéu avevo parato tutto, anche una cannonata di Puskas che mi arrivò al mento e mi stese. Nessuno, prima di noi, aveva sconfitto il Real in quella coppa. O come quando ci giocai con la Under 21 e tutto lo stadio mi salutò con i fazzoletti bianchi perché avevo parato anche i microbi: 0-0”.
Incorniciata c’è la pagina di quella partita.. “Anzolin meglio di Zamora”. In un altro quadretto: “Anzolin come Jascin”. E poi, sulla parete, tutte le formazioni di Roberto, dal Marzotto in su. La Juventus 1966/67 arrivò al 13° scudetto, con Heriberto Herrera e il “movimiento”.
“Sulla carta non eravamo i più forti, ma i nostri punti ce li siamo guadagnati tutti e io presi solo 19 gol. All’ultima giornata, Sarti fece la famosa papera a Mantova, noi battemmo la Lazio e scavalcammo l’Inter. Uno dei due raccattapalle dietro la mia porta aveva la radiolina: Signor Anzolin, l’Inter sta perdendo! Al fischio finale, tutti saltarono in campo. Io mi tolsi la maglia, la posai a terra con calma e mi incamminai verso lo spogliatoio dove mi fumai una bella sigaretta”.
In Inghilterra giocò Albertosi, cui fu fatale il dentista della Corea del Nord. “Quel diagonale io l’avrei parato, sicuro. Io non mi vendevo molto bene. E per ogni errore di Zoff, i giornali avevano sempre giustificazioni”.
Vince, nel 1968, il Premio Combi, attribuito da giornalisti e addetti ai lavori, al miglior portiere italiano.
Un altro ricordo è di Andrea Nocini, di pianeta-calcio.it, del dicembre 2010. “Guardiano dei pali” dal fisico tutt’altro che stratosferico o ciclopico, “Ansoncin” sfoderava classe robusta e cuore autentico. Era uno 177 centimetri per 73 chili. In nazionale era chiuso da Lorenzo Buffon, Lido Vieri, Carburo Negri, Giuliano Sarti e Riccardo Albertosi. “La parata più significativa è stata nel Marzotto Valdagno, a Venezia, doppia. alla Juve il presidente era Umberto Agnelli, dopo sono subentrati Catella e Boniperti, e poi c’è stato l’ingresso di Gianni Agnelli. Gli Agnelli erano eccezionali, nel vero senso della parola, intelligenti e modeste, anche se avevano alle spalle quello che tutti immaginiamo. Ero freddo, non ho mai avuto sfoderare parate plastiche, ma fare interventi semplici. Se l’atleta era in una data posizione, io mi mettevo nella sua traiettoria e al 90% ero sicuro che la palla mi sarebbe arrivata lì. Oggi sono pochi i portieri che escono”.
“Io ho cominciato che avevo Castano, Leoncini, Salvadore, Bercellino, Gori anche. Al primo anno, invece, avevo Garzena, Montico, Sarti: erano tutti giocatori che stavano raggiungendo la fine della loro carriera e devo dire che il mio primo anno alla Juventus non è stato molto brillante, in quanto siamo arrivati quint’ultimi. Eravamo una squadra “vecchia”. Di giovani, in linea di massima, c’eravamo io, Salvadore, Castano, Bercellino, Leoncini, Mazzia, mentre tutti gli altri, vedi Emoli, Montico, Charles, Sivori e Stivanello erano ormai in fase calante”.
Anche Gino Stacchini, la punta romagnola che flirtò con Raffaella Carrà? “Era un’ala sinistra strepitosa. Io non ho mai visto uno andar via in quel modo lì”.
Qual è stato il portiere più forte del suo periodo? “Mi avevano impressionato Ghezzi, Buffon, Sarti, Panetti, Cudicini. C’è n’erano parecchi di bravi portieri quando io ero giovane. Io assieme a Lido Vieri eravamo degli emergenti, all’inizio della loro carriera”.
Qual è stato il giocatore che le faceva sempre gol? “La mia bestia nera era Kurt Hamrin, che aveva giocato alla Juventus al primo anno, per poi passare alla Fiorentina”.
Ha mai calciato un rigore? “Sì, ma non in serie A. Mi è capitato diverse volte quando giocavo a Casale Monferrato, ma sempre in Coppa Italia. Negli spareggi, con il Monza e il Casale Monferrato ho sempre battuto l’ultimo rigore e sempre segnato”.
Lei cosa s’immagina di trovare nell’aldilà? “Mi auguro di trovare anche lì un po’ di tranquillità, perché io penso che quando una persona lascia questa terra, avremo i nostri figli, i nostri nipoti che ci ricorderanno, anche se per loro sarà un dolore immenso. Ma, mi creda, sono cose che quando non ci sarò più, non posso sapere. No, non me lo immagino proprio”.
La morte? “Penso che sia un avvenimento, una cosa brutta. Mi auguro di stare bene, di avere degli amici e di avere la possibilità di aiutare certa gente”.
Se lei non avesse fatto il portiere professionista, cosa le sarebbe piaciuto fare?“Eh, eh: ho studiato da tessile, sarei andato in fabbrica anch’io, come mio padre e mia madre”.
Quand’è stata l’ultima volta che ha pianto? “Alla morte del mio maestro delle giovanili, che si chiamava Gianbattista Servidati, e giocava nel Valdagno come portiere”.
Ecco, nelle città dove Anzolin ha giocato in molti lo hanno pianto. A suo modo, era un piccolo, grande personaggio.
Vanni Zagnoli