Sono passate due settimane dalla morte di Sergio Vatta ma il ricordo è ancora vivo, non solo nel popolo granata. Come Mino Favini, scomparso un anno fa, aveva creato il mito del settore giovanile dell’Atalanta, così Vatta aveva scoperto e migliorato tecnicamente decine di giovani passati dal Filadelfia.
Era chiamato il mago, è scomparso il 23 luglio, a 82 anni. Nacque a Zara, in Dalmazia, negli anni Sessanta fu calciatore nelle serie minori, nella Triestina e a L’Aquila, nel Campobasso e Fano. Iniziò presto ad allenare, proprio nelle Marche, nella mitica Fano Alma Juve, poi l’Ancona. Arrivò nel nobile Piemonte del calcio, all’Ivrea, poi Asti e Pro Vercelli, nel 1972 approdò sulla panchina dello Junior Casale che in due stagioni portò in serie C1.
La svolta fu nel 1976, con l’entrata nel settore giovanile granata. In un quarto di secolo, vinse due campionati Berretti e due Primavera, sette Coppe Italia Primavera e quattro tornei giovanili di Viareggio.
Manca un grande portiere, nella sua generazione di calciatori, per il resto l’undici sarebbe di tutto rispetto, con Pancaro, Mandorlini, Cravero e Francini dietro, Fuser, Dino Baggio e Cois a centrocampo, Lentini, Vieri e Benny Carbone in avanti. E poi Venturin e Sclosa, Silvano Benedetti come stopper, Rambaudi esterno, arrivato anche in nazionale.
Per qualche mese, Vatta allenò anche la prima squadra granata, subentrando a Claudio Sala nel 1989, senza evitare la retrocessione in B.
Era talmente bravo che nel 1991 passò in Federazione, come allenatore e responsabile delle Nazionali Under 16 e Under 17. Nel 1997/98 portò la Nazionale femminile alla fase finale dei Mondiali e fu la penultima qualificazione, prima del quarto di finale raggiunto un anno fa dalla ct Milena Bertolini.
All’epoca la Lazio investiva tanto, con la proprietà di Sergio Cragnotti, e nel ’98 scelse Vatta per dirigere il settore giovanile biancoceleste. Nel 2001 conquistò lo scudetto Primavera e con i Giovanissimi nazionali. Le ultime esperienze furono in Grecia, da responsabile del settore giovanile del Paok, e all’Alessandria, da direttore generale.
Fra i suoi ragazzi esordienti in A, il primo di tutti fu Andrea Mandorlini, nella stagione 1978-79. Dieci anni più tardi i due si affrontarono da rivali. Mandorlini era all’Inter, Vatta era stato chiamato sulla panchina della prima squadra a risollevare una stagione già compromessa. Dopo la vittoria granata al Comunale, Andrea regalò al vecchio maestro la maglia nerazzurra numero sei. Vatta poche settimane dopo sarebbe tornato a lavorare con i ragazzi.
Fra i suoi pupilli c’era Ezio Rossi, stopper di buon livello, negli anni ’80. Su facebook lo ricorda con commozione. “È stato l’allenatore italiano più avveniristico e visionario che abbia conosciuto. Anni dopo, in tanti lo hanno copiato. Tra la fine degli anni ’70 e gli inizi degli anni ’80 era all’avanguardia. Zona, preparatore atletico, lavori in palestra con pesi, psicologo, training autogeno dopo gli allenamenti e prima della partita. Il martedì riunione tutti insieme nello spogliatoio, prima dell’allenamento, per parlare: di tutto meno che di calcio o della partita precedente, parlare di famiglia, di società, di sesso, di fidanzate, della vita di tutti i giorni insomma… per crescere prima come persone normali, poi come calciatori”.
Insomma aveva tecniche che oggi più normali, sul piano della motivazione e dello stacco mentale.
“Era come un maestro, un padre e un istruttore” – aggiunge Ezio Rossi: “conciliante, comprensivo, amante del dialogo… Severo, rigido, a volte offensivo (in italiano e spesso in slavo), ma nella vita e nel calcio si cresce così. Se io sono cresciuto così e i ragazzi del Filadelfia sono stati quasi tutti prima uomini e poi calciatori, è anche grazie a lui, che è stato una pedina fondamentale della nostra crescita. Lui ha scritto una parte importante della storia del più grande settore giovanile dell’epoca, preparandoci al professionismo senza mai farci credere di poter fare i professionisti, ma sicuramente di poter affrontare la vita di tutti i giorni ed essere uomini con la schiena dritta. Riposi in pace mister Vatta e ovunque lei sia se volesse darmi ancora dell’“asinone” lo faccia perché mi ha insegnato a crescere”.
Accanto a Ezio Rossi, nel Toro c’era spesso Roberto Cravero, oggi commentatore Dazn. “Era sempre avanti” – racconta – “nel 1981 faceva già schemi su punizione e calcio d’angolo. Non ha mai avuto ambizioni per il calcio pro, pensava che il suo lavoro dovesse essere svolto nel settore giovanile. Fu un maestro di tecnica, straordinario nel costruire un giocatore. In quel periodo i rapporti tra calciatore e allenatore erano chiari, c’era una certa distanza soprattutto nel settore giovanile. Ha reso il vivaio del Torino tra i migliori d’Europa, riusciva sempre a portare alcuni dei suoi in prima squadra e a volte in Nazionale”.
Fra i più affezionati a Vatta c’era Dino Baggio, scoperto da Giacinto Ellena, che lo portò a Torino nel 1984, quando aveva 13 anni. Ellena era del 1914 e grande amico di Vatta, anche di pensiero, sulla visione del calcio e del settore giovanile. Un giorno partirono insieme per la Francia a visionare Michel Platini, nel Nancy. Fu Vatta a fare la relazione sul giovane del Nancy: “Può fare il numero 10 in qualsiasi squadra al mondo”.
Il Toro se lo fece scappare, anche l’Inter, sulla segnalazione di Mazzola, andò alla Juve.
Nella sessantina di giocatori scoperti ci fu anche Antonio Comi, il dirigente di riferimento del Torino di Urbano Cairo.
Come Gigi Radice, era stato aggredito dall’Alzheimer, che ha spento poco a poco il suo cervello.
Fu tra i primi a lavorare con lo psicologo. “L’intesa tra noi era perfetta” – ricorda il dottor Vincenzo Prunelli, che con Vatta ha scritto libri. “Avevamo il chiodo fisso dell’autonomia: i ragazzi dovevano imparare a cavarsela da soli, e guai se abbandonavano gli studi per il pallone. Arrivare al diploma era l’obiettivo minimo, le partite venivano dopo”.
E non era permessa la cattiveria gratuita: “Al prossimo fallo vai fuori, diceva Sergio a chi faceva troppo il furbo. Una volta, uno dei ragazzi rispose: ‘mister, ha già fatto tutti i cambi. Vatta lo guardò e gli disse, gelido: fuori!’ Giocò in dieci, senza quel tipetto arrogante, e vinse lo stesso”.
Il senso di appartenenza della tradizione granata aveva la forza evocativa di un luogo fisico, il vecchio stadio Filadelfia, dove si esaltarono Valentino Mazzola, Gabetto e Maroso, che quasi per magia entrava nel sangue dei ragazzini che si allenavano sul campetto di fronte a quello dei grandi, che davano consigli a tutti.
Vatta era diventato anche un documentario, “L’allenatore dei sogni”, realizzato dal regista genovese Christian Nicoletta, nel 2014. Venne persino proiettato a New York, al festival internazionale “Kicking and Screening Film Festival”, prestigiosa rassegna che ospita opere cinematografiche internazionali sul calcio.
Era rimasto molto legata alle sue terre, oltre il Venezia Giulia. Nel 2009 sognava di ricreare la Fiumana iscrivendola in Lega Pro, equivalente dell’ultima categoria disputata dalla squadra dove giocarono Volk, Loik e Varglien quando Fiume era ancora in Italia, ma la Figc non lo accontentò.
Sei anni fa, a una tavola rotonda sul documentario, intervenne Dino Baggio.
“Mi ricordo che dopo un primo tempo giocato veramente male mi nascosi in bagno per non farmi sgridare. Ma alla fine Vatta mi ha trovato e mi ha riempito di ombrellate e nel secondo tempo ho fatto 3 gol. Con lui chi aveva orecchini e tatuaggi era tagliato fuori. E sapeva come far tornare sulla terra i ragazzi della Primavera che andavano in prima squadra”.
Sergio Vatta raccontava come sapesse far restare i giocatori sul prato anche oltre l’orario previsto dall’allenamento. “Era bellissimo quando ti chiedevano se potevano restare un quarto d’ora in più sul campo. Era anche merito del pubblico del Filadelfia che restava a incitare i giovani calciatori dopo la fine del lavoro della prima squadra. I tifosi granata si attaccavano alla rete e sostenevano i giocatori del vivaio a ogni esercizio. Credo che i ragazzi volessero rimanere più a lungo anche per sentire quel calore”.
All’epoca raccontava a Milano, come riportò Stefano Scacchi, su Repubblica, la rinuncia a un’offerta del Milan nei primi anni della Berlusconi: “Era una proposta enorme, parlando di settore giovanile, degna di una prima squadra. Ma avevo appena firmato un contratto di otto anni col Torino. ‘Non preoccuparti, ci pensiamo noi a dirlo al tuo presidente’, mi dissero i dirigenti rossoneri. Ma non potevo. Se avessi accettato, come avrei potuto entrare in uno spogliatoio a dire ai ragazzi che i soldi non sono tutto? Così ho finito di pagare il mutuo della casa solo nel 2001. Ma ancora adesso i miei ragazzi mi invitano al matrimonio o mi chiamano quando hanno un bambino. Sono queste le soddisfazioni”.
Il “metodo Vatta” era declamato nel documentario: “Cerca di divertirti, cerca la qualità, è un balletto questo, lo mettiamo in scena alla Scala di Milano”. “Appena uno su 40.000 arriva in Serie A” – spiegava – “per questo motivo il calcio deve essere organizzato pensando agli altri 39.999″.
Tre anni fa, invece, in occasione della rinascita del Filadelfia, Vatta si era raccontato a www.toro.it.
“Quello che provo è un’emozione indescrivibile. Non è facile ricreare il sentimento di quando c’era quel cancello rosso con il toro rampante in rilievo. Vederlo tutto sgangherato, con l’erba del campo alta due metri mi ha fatto male. Mia moglie quando l’ha visto si è addirittura messa a piangere. Io le ho detto: “Stai tranquilla che adesso lo rifaranno, lo metteranno in ordine”. Ed effettivamente così è stato e devo dire che hanno fatto un bel lavoro. Certamente non sarà per il grande pubblico, ma per 4000 persone che per seguire gli allenamenti comunque vanno bene. Bisogna vedere se li lasceranno entrare quei 4000 che ci starebbero. Ricordo la prima volta che sono entrato nel vecchio Fila, in punta di piedi, non volevo mettere fuori posto neanche un sassolino. Ero entrato in un monumento, in una chiesa e avevo paura di disturbare, di non meritare di stare lì dentro. Poi è successo che un giorno mi dissi: “Un giorno io qui verrò ad allenare”. Ed è avvenuto. Prima mi diedero la Berretti e vincemmo il titolo e poi con la Primavera è nata quest’epopea”.
Quali sono stati i segreti delle sue giovanili?
“Uno di sicuro è stato il preparatore Giuseppe Trucchi, direttore dell’Isef di Torino e preparatore della squadra. Ma anche tutti i membri dello staff, persone competenti e tutte le volte che ci incontravamo tutti insieme lo capivo. Il nostro obiettivo era guardare al futuro, senza legarci troppo al passato. Ma il passato del Toro è un passato prepotente: il Grande Torino è su tutto e su tutti. Per me è la più grande squadra di club che l’Italia abbia mai avuto. Quando i ragazzi arrivavano, aleggiava nell’aria questo sentimento verso questa società speciale. I nostri tifosi, poi, non erano semplici sostenitori: insieme con noi facevano una famiglia”.
Tanti successi, ma anche tanti campioni lanciati…
“Divenne quasi un’abitudine la mia riunione con il direttore della società, Moggi negli ultimi anni, per preparare l’elenco dei giocatori delle giovanili con tanto di caratteristiche e di categoria in cui sarebbero dovuti andare a giocare. Compresi quelli già pronti per la A. Un ragazzo dei nostri, poi arrivato in Serie A con il Brescia a precisa domanda sul settore giovanile granata disse: “Lì vivevamo da “Saranno famosi”. Concentrò in tre parole tutto quello che era il clima del Fila. Tutti gli anni riuscivamo a trovare non uno o due, ma cinque o sei giocatori da lanciare in prima squadra”.
Qual era la differenza tra un ragazzo cresciuto al Fila e uno cresciuto in un altro settore giovanile?
“Forse il segreto stava proprio nella pazienza che mettevamo nell’aspettare i ragazzi. E il gruppo ne beneficiava, tanto che quando mettevo fine all’allenamento i giocatori insistevano affinché continuasse ancora un po’. Esemplificativo è il caso di Vieri. Il primo giorno del ritiro a Macugnaga mi disse: “Mister io voglio andare via perché sono il più scarso di tutti”. Io risposi: “E’ vero, ma spiegami perché tutte le volte che sei di fronte alla porta riesci a segnare quasi sempre. Ora andiamo a vedere come si può migliorare questa qualità con i consigli giusti”. Da quel giorno alla fine del ritiro passò ogni giorno a calciare in porta e da lì ho capito che non avrebbe mai mollato e sarebbe diventato qualcuno”.
Quei valori di famiglia e unità d’intenti potranno tornare?
“Quella è stata un’epopea. C’era tanta gente che lavorava, tanti maestri di calcio. Io cercavo di fare un po’ il fratello e con gli altri ci confrontavamo spesso su come avremmo potuto migliorare negli insegnamenti di offrire ai ragazzi. Per ora è difficile capire se tutto questo potrà tornare. Io aspetto il Fila, ma anche l’impatto del Fila. Perché se lo chiudono per gli allenamenti della prima squadra, impedendo ai tifosi di entrare, o la Primavera non si allenerà pressoché in contemporanea sarà difficile ricreare lo stesso clima. I ragazzi hanno tanto da imparare e se non vedranno gli allenamenti della prima squadra giornalmente è difficile che possano capire come si diventa veri calciatori”.
La saggezza di Sergio Vatta mancherà tanto al calcio italiano.
Vanni Zagnoli
Da “Assocalciatori.it”