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Felice Pulici se n’è andato a quasi 73 anni, era stato uomo forte del CONI laziale, dopo la grande carriera di portiere. A lui avevamo chiesto, per esempio, i contatti di Riccardo Viola, figlio di Dino, pure legato al CONI del Lazio. Felice era stato a lungo opinionista di Raisport.
Intanto lo ricordiamo con l’articolo di Alessandro Castellani, dell’agenzia Ansa.
«Nelle sue mani finì il primo scudetto della Lazio, quella di Tommaso Maestrelli, ed erano mani sicure. Il calcio italiano dice addio a Felice Pulici, ex portiere biancoceleste, n.1 di un’epoca molto più lontana di quanto non dicano i 44 anni di età di quella esaltante avventura tricolore. Quando, un paio di stagioni dopo il titolo, Pulici parò anche l’impossibile in un derby romano, di lui si disse che ‘parava anche l’aria’. E lo faceva con serietà e una costanza perfino controcorrente in una squadra vincente e dannata: in cinque anni di maglia biancoceleste, dal ’72 al ’77, non saltò mai una partita tra i pali, 150 gare tonde di seguito. Era il 28 novembre del 1976, “magnifico” (definizione di Nils Liedholm, maestro anche di fair play), “perfetto”, “mostro”: così fu definito Pulici in quel derby, in un giorno in cui fece capire di essere un campione anche dal punto di vista umano. A fine partita gli dissero che Tommaso Maestrelli, non solo un allenatore ma anche uno a cui voleva un bene dell’anima, fiaccato dal male che lo aveva aggredito, non ce l’aveva fatta a vedere il derby dagli spalti, e lui scoppiò a piangere mentre cercava di dedicargli la vittoria. Maestrelli salutò per sempre appena quattro giorni dopo e quella fu l’ultima gioia calcistica che la sua Lazio e Pulici riuscirono a regalargli. Maestrelli, ma anche Luciano Re Cecconi, il patron Umberto Lenzini, padre Lisandrini, Renato Ziaco, Mario Frustalupi, Giorgio Chinaglia (che quando divenne presidente, a metà anni ’80, volle Pulici come direttore generale), Mario Facco, e adesso il portiere. È lo sgretolarsi di una favola forse non replicabile nel calcio business di oggi, della squadra bohemien che da neopromossa sfiorò lo scudetto e che lo vinse l’anno dopo giocando “all’olandese” e regalando emozioni tra storie di pallone, pistole, amori e night club.
Brianzolo di Sovico, classe ‘45, Pulici aveva anche allenato la Lazio Primavera e nella capitale era da anni anche un apprezzato opinionista televisivo e radiofonico, stimato anche da chi non era laziale per la misura nei giudizi e per l’educazione. Un signore che adesso lascia tutti un po’ più soli.
Lazio che è scesa in campo a Bergamo con il lutto al braccio. “Di lui” – rivela l’allenatore laziale Simone Inzaghi – “ho un ricordo stupendo, era dirigente quando io arrivai nel ’99 e mi aiutò molto: perdiamo un grande laziale e un grande uomo”.
Pulici aveva giocato anche con Lecco e Novara, Monza e Ascoli, dove contribuì ai migliori campionati della storia, con il compianto Gb Fabbri, e poi Mazzone in panchina. Dopo avere smesso, aveva ricoperto diversi ruoli dirigenziali nella società biancoceleste (già dal 1983, con Chinaglia presidente) e poi anche nell’Ascoli. Nel 2005 ebbe anche una parentesi politica, candidandosi alla regione Lazio con la lista Storace, senza però essere eletto.
Toccante il ricordo di Fabrizio Marchetti, dell’ufficio stampa del CONI, per anni firma sulla Lazio per Il Tempo.
«Hai parato fino all’ultimo. Con quel fare sicuro che non sconfinava mai nella presunzione. Con quella discrezione elegante che è stato un filo virtuoso, capace di unire le varie fasi della tua carriera e della tua vita. Ti sei disteso e poi tuffato per intercettare le traiettorie più insidiose, facendo scudo, come sempre. Minimizzavi, voltavi pagina, eri tu a infondere coraggio a chi ti stava vicino. Stavolta l’avversario non era un banale pallone di cuoio da bloccare, si trattava di una sfida impari contro dolore e sofferenza. Avevi le spalle grandi, la mente eccelsa e l’animo buono.
Hai fatto della famiglia il tuo baluardo inespugnabile, un fortino di affetti, valori e mutualità, e della Lazio, la tua Lazio, una ragione di vita. Hai vinto entrambi gli scudetti che impreziosiscono la bacheca: uno da giocatore e uno da dirigente, passando da Tor di Quinto a Formello sempre con l’aquila tatuata sulla pelle. Non dimentico quando, ancora giovane cronista, solo il tuo sorriso rassicurante – accompagnato da una pacca sulla spalla – mi aiutò ad avvicinarti, vincendo il legittimo imbarazzo.
Eri un mito ma a misura d’uomo. Studiavi, approfondivi, ti confrontavi. Non so dire quante ore ho passato al telefono con te e quanti argomenti abbiamo affrontato ma so che l’essenza del tuo modo di essere è una traccia che rimarrà indelebile nella mente e nel cuore, mio e di chi ti ha voluto bene. Mi hai aiutato, rimproverato, consigliato, stimolato, credo anche apprezzato. Ricordo quella notizia che mai avrei voluto dare, nel 2006: il divorzio definitivo dalla Lazio. Non fosti tu a rivelarmi il retroscena e quel giorno non mi rispondesti al telefono fino a tarda sera».
Vincenzo Cerracchio, firma storica de Il Messaggero, sempre per la Lazio, sul suo blog. «Non ho pianto” – scrive – “ho scritto un tweet… Lo so che lo sai cos’è un tweet, caro Felice. Come so che sei rimasto fermo al telefono, quello purissimo del “pronto chi parla”. Che stavi per lasciarci lo sapevo. Perché tra laziali siamo abituati a far la conta, più per scaramanzia che per altro. “Lo sai che Felice e Mario (Facco) stanno malissimo…”, mi disse non so chi. A te non sentivo proprio più. E per questo ci stavo più male. Avrei dovuto telefonarti e dirti quel banale e irriverente “Come stai?” e chiederti se fossi disposto a vedermi, mai successo fuori da eventi ufficiali: ti avrei allarmato, penso.
Solo un paio di lacrime. Quelle che tu ingoiavi ogni volta che ti chiamavano a parlare di chi non c’era più, fosse Tommaso (Maestrelli, ndr) o fosse Giorgio (Chinaglia). Tommaso più di Giorgio, perché è stato il primo dolore. E il primo dolore, quando perdi un padre, ti ghiaccia l’anima e te la scioglie nel tempo, te lo diluisce.
Per me non sarà mai la Lazio di Chinaglia e Wilson, o tua e di Cecco, o del mio coetaneo e omonimo Vincenzo. Sarà la Lazio, intesa nella sua purissima essenza. In questo senso ho scritto che tu sei la Lazio. Ricordo le telefonate che ti facevo per un’intervista o quelle che mi facevi tu per commentare quello che scrivevo. Poi c’era un ma, un dettaglio, un qualcosa che mancava, un aggettivo magari. Ti accendevi pian piano, ti infervoravi in ogni discussione, come l’ottimo avvocato che sei. Ne avresti voluti altri come te, come Bob. Coinvolti nell’avventura. Già, il tuo amico Bob, il mio amato Lovati…
Mi dicesti: “Conosci Domizzi, il nostro giovane centrale? Beh, vedrai. Lui si mangia pure Nesta”. Sbagliasti tu o si perse lui, questo non lo so. Anche se gioca ancora, ho visto, a 38 anni. E ha fatto la sua brava carriera, anche se Nesta non lo ha mai raggiunto.
Poi c’è stata la “Controstoria della Lazio” e lì dentro tu sei citato venti volte, non le ho contate. C’era un’omissione in quel libro: avevo scritto che avevi pagato tu per tutti nel caso del passaporto falso di Veron, con qualche mese di inibizione. “Ma ti sei dimenticato che sono stato assolto in tribunale per non aver commesso il fatto…” Avevi ragione tu, stavolta.
Il 16 dicembre del ’73, esattamente 45 anni fa, tu e Giorgio batteste il Napoli capolista all’Olimpico e lo raggiungeste in testa insieme alla Juventus. Di fatto dando il via a quello straordinario sprint scudetto. Che poi stravinceste. Segnò Giorgio di ginocchio, spingendo in rete avversari e sogni, con la forza del Rodomonte che era. Tu, in compenso, parasti tutto, volando da un palo all’altro, come spesso ti toccava, per arginare Braglia e Juliano.
Domani non è domenica. È un triste martedì. Alle 14 sarai in Chiesa e so che la Chiesa è importante per te come un rettangolo verde. Ma non è domenica, non ci sarà “papà Lenzini” a segnarti il rigore propiziatorio. Poi uscirai da lì e sparirai alla vista di noi umani. Per andarti ad allenare come si fa di martedì. C’è un’altra partita, presto, da qualche parte. È così verde quel campo che abbaglia gli occhi».
Su Repubblica, Giulio Cardone, altro giornalista al seguito della Lazio, partito pure da Il Tempo.
«Quando ero piccolo e stavo sempre con loro, con quei giocatori pazzi e leggendari allenati da mio padre, ero convinto fossero eroi immortali. Invece se n’è andato pure Felice».
Massimo Maestrelli, figlio di Tommaso, tra le lacrime trova ricordi nitidi di Pulici. «Mi aveva telefonato il 2 dicembre, furibondo perché per la prima volta dopo 42 anni non era stata organizzata la messa per l’anniversario della morte di babbo. Come il segnale di un cambiamento definitivo, una premonizione».
Pulici detto Felix se n’è andato a 73 anni, dopo aver a lungo lottato con il cancro. «Come compagno di stanza all’ospedale gli era capitato un tifoso della Lazio commosso e incredulo all’idea di condividere questo percorso con un suo idolo. Lui si emozionava per cose così». Parava a mani nude, Pulici. Al limite, guanti di lana quando pioveva, comprati personalmente all’Upim, costavano mille lire. Nelle immagini in bianco e nero di quella straordinaria avventura, lo vedi volare da un palo all’altro e bloccare sulla linea palloni di fango. «In un derby quattro giorni prima che mio padre morisse, nel ’76, gli dedicò una prestazione incredibile. Parò di tutto, la Lazio vinse 1-0, gol di Giordano». A volte Maestrelli impazziva per le smargiassate di Chinaglia e Pulici mediava. In quello spogliatoio diviso quando non contava, cioè durante la settimana e mai la domenica, Felice era nel clan di Long John, dall’altra parte c’erano Martini e Re Cecconi. In ritiro leggeva Sant’Agostino. «Ognuno di quei calciatori aveva caratteristiche umane diverse, mio padre riusciva a entrare nelle loro teste, era difficile ma lui si divertiva.
Pulici era più saggio di altri, con una volontà di ferro. Basti pensare che a 40 anni si è rimesso a studiare, laureandosi in legge: non da tutti, direi».
Estremo difensore, davvero. Della Lazio tra i pali e da avvocato, ai tempi di Calciopoli. Del suo amico Chinaglia che lo volle dirigente e anche di un calcio antico, quando l’Ascoli poteva arrivare quarto in Serie A. Con Pulici in porta, certo, dopo i cinque anni senza mai un’assenza nella Lazio, la squadra della vita. «Veniva dal nord – ricorda ancora Maestrelli jr – e per questo in quello spogliatoio pagava dazio, lo prendevano in giro». Era brianzolo, il papà faceva l’operaio alle Acciaierie Falck di Sesto San Giovanni. La mamma era in sanatorio, così Felice era cresciuto con le zie e con una passione totalizzante per il calcio. Gli piaceva Giorgio Ghezzi, numero 1 prima del Milan e poi dell’Inter soprannominato “kamikaze” per il coraggio speciale. Arriva nella Lazio che ha già 27 anni: su di lui scommette Bob Lovati, vice di Maestrelli ed esperto di portieri perché lo era stato. «Mi ricordava spesso quell’incredibile primo colloquio con mio padre: Felice si aspettava il classico interrogatorio su tecnica e ambientamento. Invece babbo gli parlò del suo problema del momento: si era dimenticato la cinta, i pantaloni gli cadevano, gli chiese di accompagnarlo a comprarne una. Capì subito che sarebbe stato un rapporto speciale. E infatti spesso veniva a casa per confidarsi, quando ne aveva bisogno». Dopo la partita dello scudetto, il 12 maggio ’74, tutti a festeggiare meno lui: si ritrovò nella camera d’ospedale di Martini, finito lì per infortunio. Non si trattava di uno slancio solidale: il compagno era l’unico ad avere le chiavi del suo armadietto, Felice doveva cambiarsi e volare al paese, Sovico, dalla moglie. Stava nascendo Gabriele, il secondogenito. Un altro calcio, sì. In quello di oggi, la Lazio giocherà a Bergamo con il lutto al braccio.
Cordoglio di Gravina («Un grande amico sempre disponibile») e dolore di Inzaghi: «Perdiamo un grandissimo laziale». Della squadra del ’74, oltre a Maestrelli, se ne sono andati Re Cecconi, Frustalupi, Chinaglia, Polentes, Facco. «Grazie a quella impresa», dice Massimo Maestrelli, «il loro ricordo è vivo. Allora forse non mi sbagliavo, sono immortali».
Pulici si limitò a 3 presenze in nazionale under 23, con Azeglio Vicini, quando aveva 30 anni, davanti aveva Albertosi, Zoff e Castellini, che gli vennero preferiti da Fulvio Bernardini per il mondiale del ’74, in Germania.
Splendida, infine, l’intervista uscita due anni fa su Il Giorno di Monza e Brianza, a firma di Dario Crippa.
«Eravamo poveri – raccontava -, un pallone era una conquista e in occasione della prima comunione mio padre operaio arrivò a casa con un pacco regalo: dentro ce n’era uno. Quella notte ci andai a dormire assieme e, al mattino, chiamai tutti gli amici per giocarci… peccato che dopo un tiro la palla finì sotto le ruote del bus e scoppiò”.
E?
“Lo riempii di paglia e stracci e presi a giocarci da solo lanciandolo contro il muro e riprendendolo al volo. Per ore. E diventai un portiere”.
Da dove cominciamo?
“Le mie origini sono umili: coi soldi che guadagnava, mio padre si comprò il terreno dove costruì casa nostra. E per tre anni, dagli otto in avanti, a crescermi furono alcune zie”.
Perché?
“Mia madre si era buscata la tubercolosi e dovette restare per tre anni in sanatorio. Per fortuna c’era il paese a proteggerti e starti vicino”.
Scuola?
“Andai al Mosè Bianchi di Monza per diventare geometra. Fra i miei compagni, ma un anno più avanti, c’era Adriano Galliani…”.
Intanto, aveva cominciato a giocare a pallone.
“All’oratorio di Sovico. D’estate, mentre i più ricchi andavano in villeggiatura, ci trascorrevo tutta la giornata. Durante l’anno però si giocava soprattutto per strada, cappotti e cappelli a fare da porta. E il pallone era la cosa più importante, solo che da noi lo portava un ragazzino coi soldi e un po’ odioso…”.
Come si scoprì portiere?
“Imparai a tuffarmi nel corridoio di casa. Oppure usando i materassi dei letti come trampolino. Amavo già il ruolo del portiere, Gilmar del Brasile ai Mondiali del ‘58 era il mio idolo: tagliavo le vecchie federe per legarle sopra un maglione verde su cui scrivevo Brasil… e sognavo. In Italia, come portiere adoravo Ghezzi, il suo modo spericolato di stare fra i pali, lo chiamavano kamikaze. Io puntavo sul senso della posizione. Il primo cartellino lo firmai ad Albiate”.
E dopo diverse traversie fra Lecco, Seregno e Sovico…
“Mi prese il Lecco, appena retrocesso dalla serie A”.
Eppure coltivava ancora un vecchio sogno…
“Col diploma da geometra, avevo cominciato a progettare case con mio cognato. Mi piaceva, ero molto bravo soprattutto a fare le strade. Il mio sogno un giorno era di andare a Novara all’istituto geografico De Agostini per occuparmi di strade e topografia…”.
E invece a Novara ci andò, ma da calciatore.
“Mi presero in serie C e vincemmo subito il campionato”.
E quell’estate?
“Mi chiamò mio suocero – intanto mi ero sposato – e mi comunicò che mi aveva preso la Lazio!”.
Fu la sua fortuna.
“Per due stagioni fui il portiere meno battuto della serie A. Il primo anno lo perdemmo a cinque minuti dalla fine, ma il 12 maggio 1974, dopo un rigore di Chinaglia, vincemmo il primo scudetto nella storia della Lazio”.
E a Roma fu delirio…
“In più dopo quella partita mi chiamarono per dirmi che era nato Gabriele, il mio secondo figlio (Michela era nata mentre ero in ritiro col Novara, per ultima nacque Raffaella)”.
Era all’apice della carriera.
“Eppure mi persi i Mondiali del ’74 in Germania, ma alla Lazio furono cinque anni meravigliosi”.
Finché le cose non si guastarono e le toccò scendere di categoria… per venire, nel 1977, al Monza in serie B.
“All’inizio non fu semplice accettarlo, eravamo anche ultimi in classifica, ma cominciammo una rimonta incredibile che ci portò a sfiorare la serie A. Era un grande Monza, con un presidente eccezionale, Giovanni Cappelletti: ho ancora i brividi quando ci ripenso, fu lui a chiamarmi di persona per convincermi a venire al Monza”.
E poi a Monza aveva un pezzetto di cuore…
“Vero: quell’anno abbandonavo la serie A ma tornavo a casa, alla squadra che vedevo giocare da bambino con papà al vecchio stadio Sada. E alla Brianza sono rimasto sempre legato, ci torno tutt’ora”.
Da giocatore, dopo Ascoli, chiuse alla Lazio, dove iniziò anche la carriera da dirigente. Dal settore giovanile…
“Ho creato la prima scuola calcio del calcio professionistico, da cui uscirono Nesta e Di Vaio”.
…alle aule di tribunale: si era rimesso a studiare.
“Mi sono laureato in diritto romano. Mi sono specializzato in diritto sportivo, seguivo da dirigente tutte le cause disciplinari”.
Nel 2002 ha fatto una scelta controcorrente.
“Ho deciso di studiare per tre anni la lingua dei segni e sono rimasto per 10 anni nella federazione sport sordi Italia, di cui sono stato anche commissario straordinario: un mondo fantastico, popolato da persone straordinarie”.
In letteratura si parla della “solitudine” del portiere…
“Non ci sto.. quello del portiere è il ruolo più bello, fa crescere una persona: devi risolvere i tuoi problemi da solo, ma nella mia casetta che era la porta io parlavo con il mondo, col Padreterno, con la Madonna, con i parenti, con gli amici”.
Cosa pensa il portiere quando è in porta?
“È sempre quello che si piglia tutte le colpe, ma io mi costruivo nella mente la partita già dalla sera prima, indovinavo cosa sarebbe potuto accadere e spesso andava così”.
La parata più bella?
“Contro Rivera, a San Siro. Fischiano un calcio di rigore e a batterlo arriva lui, il mio idolo da giocatore, fresco di Pallone d’oro… ma io mi tuffo e paro! Mi alzo e faccio per andarmene: Concetto Lo Bello, l’arbitro, sgrana gli occhi e mi chiede: “Dove vai?”. E io: “Un orgasmo così non lo proverò mai più, voglio tornare a casa…”.
Non si è fatto mancare nulla: ha collaborato con Federcalcio e Coni… e si è candidato in politica.
“Sono sempre stato di centrodestra sì, ma il mio grande riferimento era Amintore Fanfani”.
La felicità, per Felice Pulici?
“La ricerca della verità. E, per un portiere, non prendere mai gol… perché quando sei in porta hai solo un compito: devi difendere la tua casa”».
Vanni Zagnoli
Da “Assocalciatori.it”