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Ci sono campioni e campioni, personaggi e personaggi. Eugenio Bersellini ci stava particolarmente a cuore, perchè parmense. Noi, da 28 stagioni voce nazionale dell’Emilia Romagna, ci appassioniamo alla nostra gente. L’avevamo incontrato forse una sola volta, a Brescello, con il suo Saronno. Sorridente, era l’allenatore dei varesotti con Enrico Preziosi presidente. E’ scomparso due settimane fa, ma abbiamo ritardato, quasi non trovavamo la forza per scrivere. Aspetta un giorno, una distrazione, una conferenza stampa, un viaggio, aspetta di qua, aspetta di là. La realtà è che Bersellini rappresentava un calcio che non esiste più, fatto di gente perbene, normale, che non parla a contratto, a sponsorizzazione, alla tv. Che si poteva chiamare senza problemi, senza il filtro dell’ufficio stampa nè dell’addetto stampa, dell’ad che comanda su tutto o degli steward che ti bloccano. Era impossibile non volergli bene, non voler bene a quello sport che era vita e non era dominato dai diritti tv e delle hostess in ogni dove, dalla bellezza ostentata di sportivi e sportivi, di ricchi e viziati, di gente che era vera e non pettinatissima o abbronzatissima o capricciosissima.
Erano tanti i Bersellini di quel calcio, altrochè sergente di ferro. Anzi, sì, lui aveva capito tutto. Sergente verso i mocciosi del pallone – oggi moltiplicati -, a parte da Evaristo, sorridente con gli astanti, soprattutto a fine carriera.
Eugenio non aveva il pullman che scampanellava (cit. Albanese), nè ruffiani che gli ronzavano attorno. Non aveva soubrette fuori dagli spogliatoi, nè instagram o dediche a cuori. Aveva gente tosta, con stipendi umani, umile, senza macchinoni o il codazzo di agenti e pseudoagenti, di mezzecalze o di sicurezza. Non era il “magna magna” che disse Weah, una volta, su Italia1.
Bersellini va a fare compagnia al petisso Pesaola, a Chiappella e a Clagluna, a molti altri di un calcio che ha ancora in Mazzone e Bagnoli gli indimenticabili.
Sarebbe troppo facile dire che il pallone di Eugenio era pane e salame, era sobrio e persino povero, gibboso come certi campi, appuntito eppure divertente. Era il formidabile pallone degli anni ’70, senza stranieri, con attaccanti che nel calcio di oggi sarebbe forse in D, eppure la gente si appassionava.
Bersellini non sparava sentenze, non affabulava, nè parlava per aumentare gli abbonamenti. Vinse un gran scudetto con una grand’Inter, con Mozzini stopper, con Ambu e Pancheri in rosa, non aveva solo Evaristo, scusate se insisto.
Il Bersello era grande anche in Europa, arrivò in semifinale, eliminato dal Real Madrid. Quello della canzone di Max Pezzali. “Gli anni d’oro del grande Real”. Due a zero al Bernabeu, uno a zero a San Siro, gol di Bini.
Non c’era overdose di pallone in tv, magari alla radio, ecco. C’era persino Paolo Carbone a narrare le coppe, in studio o allo stadio e ancora non c’erano le private e i vari “Qui studio, a voi stadio”.
Eugenio è stato la Fiorentina eliminata ai rigori in Uefa, nell’86-87, al primo turno, come la Roma con il Real Saragozza in coppa delle Coppe e come il Napoli con il Tolosa. Si va a memoria, a costo di sbagliare, è troppo facile controllare tutto su google. I viola uscirono con il Boavista Oporto, avevano Paolo Monelli e Celeste Pin, forse Guerrini come stopper. Magari sbagliamo, ma non importa. E’ per testimoniare nomi eroici, eroi di un calcio da figurine e spogliatoi, da presidenti veri come Ivanoe Fraizzoli e Paolo Mantovani, come Ranieri Pontello e quelli del Toro.
Bersellini aveva un bel soprabito, in panchina, sempre, non tanti capelli, gli occhi chiari. “Il cielo è azzurro come gli occhi di Totò Schillaci”, declamava all’epoca Sandro Ciotti, mentre Repice Francesco forse urlava a casa propria…
Bersellini era ruspante come Renzaccio Ulivieri, ancora in auge, non alimentava il proprio personaggio. Aveva la tuta e il fischietto, sul campo, un pizzico di pancia, era visivamente simpatico. Era il pallone, che non smetteva mai di rotolare. Era rispettato anche dagli avversari, ovunque, mai cori contro o scherno o irrisione.
Era la Sampdoria di Vialli e di un Roberto Mancini che voleva esplodere.
Era – e qui ci aiutiamo con wikipedia -, cresciuto nel Fidenza, Bassa Parmense, e poi al Brescia e al Monza, ai tigrotti della Pro Patria et Libertate di Busto Arsizio, al Monza e al Lecce.
A 31 anni era già in panca. Lecce e Como, Cesena e Sampdoria, prima appunto di Riccomini e Renzaccio. Il lustro all’Inter con anche due coppe Italia e il biennio al Torino, buono. La Sampdoria che vince il primo trofeo e quella Fiorentina. L’Avellino di Sibilia all’ultimo anno di serie A e l’Ascoli disastrato di Costantino Rozzi, il Como e il Modena. Già, il Modena, ora lo ricordiamo, allo stadio Braglia. Da brividi. Al Bologna non ci sovviene, al Pisa poco. Quel Saronno. La Libia. La Libia! Mamma mia. La nazionale e due squadre di Tripoli. La Lavagnese nel 2006.
Bersellini è morto a Prato, a 81 anni. All’Inter aveva Bordon e Oriali, Beppe Baresi che Bearzot colpevolmente preferì a Di Gennaro, nell’86, con la Francia, Beccalossi, Altobelli e Muraro.
Dice Spillo: “Mi sono sentito con i vecchi amici, siamo tutti in contatto via chat, fra tutti noi c’è un grande momento di malessere. Bersellini è stata la mia grande fortuna, mi volle a Milano e mi fece crescere: vide qualcosa su cui lavorare. Battemmo due volte la Juventus di goleada”.
Eugenio insisteva molto sulla preparazione. “All’epoca era un innovatore. Aveva introdotto lo stretching, inedito. E i ritiri: dal venerdì fino alla metà della settimana successiva… Ma per vincere servono sacrifici e questo è il più grande insegnamento che ci lascia”.
Lo scudetto numero 12 arrivò nell’80, a 44 anni, dunque fu tra i più giovani tecnici scudetto. Gli è stata fatale una polmonite. “Ci lascia un patrimonio umano inestimabile”, singhiozza la figlia Laura. “I suoi ragazzi dell’Inter, come li chiamava papà, lo avevano soprannominato ‘il tigre’. Ma dietro quella maschera da burbero, c’era un uomo dolcissimo”.
Capace di fornire 5 uomini alla nazionale campione del mondo per la terza volta. Lanciò in A a 16 anni lo zio Bergomi, record assoluto nella storia interista: “Uno cosi’ non l’ho mai allenato”. E non era solo per le sopracciglia folte.
Il debutto in A giunse con il neopromosso Cesena nel ’73. All’Inter lanciò in parte anche Walter Zenga. “A quel tempo ero nella Primavera, ma con la prima squadra ci allenavamo fianco a fianco e lui ci teneva d’occhio. Mi portò in panchina nella finale di Coppa Italia vinta con il Napoli. Era una persona fantastica, onesta, tutta d’un pezzo. Con lui non potevi sgarrare, è vero, ma si confonde il concetto di “sergente di ferro” con chi semplicemente fa rispettare le regole”.
Domenica la curva nord dell’Inter l’ha ricordato con lo striscione: “Integrità e purezza. Il calcio quello vero, ha perso un gigante. Fai buon viaggio mister Bersellini”.
Lassù urlerai dietro ai trequartisti indisciplinati e ai difensori fuori posizione, ai presidenti che ti esoneravano e ai tifosi che fischiavano. Raramente. Eri unico, Eugenio. Lasciatelo dire. Da un reggiano.
Vanni Zagnoli