di Vanni Zagnoli
Vent’anni sono passati da un cambio epocale nella storia dei calciatori, il 15 dicembre 1995 la legge Bosman ha riscritto le regole, liberalizzando la compravendita dei giocatori europei a fine contratto. Quel provvedimento era frutto della sentenza sulla libera circolazione dei lavoratori emessa dalla Corte di giustizia Ue.
Sino a quel momento, ogni giocatore a fine contratto doveva ottenere il permesso del suo club per potersi trasferire e per la società che vendeva c’era un indennizzo calcolato in base allo stipendio lordo del calciatore nell’ultimo anno, moltiplicato per un coefficiente che variava in base alla sua età.
Il numero dei calciatori stranieri, anche comunitari, era limitato dalle norme delle federazioni nazionali, in Italia si era saliti da uno (con la riapertura delle frontiere nel 1980) al massimo di 3 contemporaneamente in campo: nel 1994-95, per esempio, il Milan campione d’Italia in carica ne aveva 5, ma 2 per volta dovevano restare fuori.
L’unica eccezione continentale era l’Inghilterra che assimilava i giocatori britannici, dunque non c’era limite agli scozzesi, agli irlandesi e ai gallesi.
La rivoluzione avvenne grazie al belga Bosman, che contestò di fronte alla Corte di giustizia europea il mancato trasferimento al Dunkerque, squadra francese di seconda divisione, nonostante il suo contratto con il Rfc Liegi fosse scaduto. Nel 1990, i dirigenti belgi avevano ritenuto insufficiente la proposta transalpina e così la battaglia legale era durata per 5 anni. I giudici dettero ragione a Jean Marc Bosman e così dal dicembre di 20 anni ogni giocatore a fine contratto potè trasferirsi senza indennizzi.
Il calciatore è stato insomma considerato alla stregua di un qualsiasi lavoratore e circolare liberamente in tutta l’Europa, senza restrizioni relative alla nazionalità. Dunque le federazioni non possono più limitare il tetto di giocatori stranieri comunitari in campo. Inoltre, a sei mesi dalla scadenza del contratto, un calciatore può già firmare un preaccordo con un altro club.
“Le cose sono migliorate per tutti, giocatori e club – spiega Damiano Tommasi, presidente dell’Aic all’Ansa, la principale agenzia di stampa -. Si è solo aperto un mercato che prima era limitato, permettendo così a tanti ragazzi italiani di andare a fare esperienza all’estero e di giocare le coppe”.
Il livello del nostro calcio può essere complessivamente aumentato, eppure ha creato anche molti disoccupati, costringendoli a espatriare o a finire nelle categorie inferiori, soprattutto tra gli attaccanti e i centrocampisti offensivi.
Dal 1968 all’80, quando le frontiere erano chiuse, le classifica cannonieri premiava giocatori non sempre di primo piano. Prendiamo la graduatoria del 1979-80, vinse Roberto Bettega, davanti ad Altobelli e a Paolo Rossi, poi Selvaggi, Pruzzo, Graziani, Savoldi, Giordano, Palanca e Antognoni, tutti giocatori eccellenti. A quota 7 reti (si giocavano 30 giornate) c’erano Gianfranco Bellotto, poi allenatore anche in serie A, nel Modena, e Alessandro Scanziani, altro centrocampista e poi tecnico soprattutto in Lega Pro, che nel calcio degli stranieri avrebbero faticato a essere così protagonisti, tantopiù dopo la Bosman.
“Quella sentenza – aggiunge Tommasi – aprì la strada al parametro zero. L’aumento del numero degli stranieri non va letto solo in modo penalizzante. Ci sono stati casi in cui ha rappresentato un valore aggiunto. Iniziai a fare il professionista poco prima di quel pronunciamento e mi diede l’opportunità di crescere insieme a tanti campioni stranieri”.
In questo ventennio, però i trasferimenti si sono moltiplicati.
“C’è meno stabilità, perchè le rose sono molto larghe e non tutti giocano. Così per non perdere il posto in squadra, quando non si gioca magari si cambia squadra spesso”.
Le ripercussioni sono state anche sui vivai.
“Il mercato tanto ampio a portata di mano agevola la pesca di giovani negli altri Paesi, così non vengono formarti in casa. Costa meno e anche l’organizzazione è meno impegnativa”.
Brasile e Argentina, per esempio, restano primattrici mondiali pur avendo molti nazionali all’estero.
“Ma è più formativo – si chiede Tommasi – giocare la Champions con il Manchester United o rimanere in Italia e non fare le coppe? Quasi un terzo dei giocatori convocati abitualmente in nazionale gioca nei maggiori campionati esteri”.
Qui il presidente dell’Aic riprende un suo cavallo di battaglia. “In Italia la formazione giovanile non ha lo sbocco presente all’estero, dove esistono campionati di squadre B o squadre riserve. Così oggi Rugani gioca solo in coppa Italia, con la Juve, mentre Saponara è dovuto tornare all’Empoli, per trovare spazio in serie A”.
Qualche eccezione esiste, il Sassuolo è in zona Europa league pur avendo in rosa solo tre stranieri: il croato Vrsaljko, esterno destro, il ghanese Duncan, spesso in panchina, e il francese Defrel, pure non titolare fisso.
“Anche prima della legge Bosman – conclude Tommasi -, il nome esotico ha sempre attirato. Quella sentenza però ha cancellato tante storture, dando la possibilità al giocatore che non si sente gratificato di decidere il suo futuro”.
Al tempo stesso si sono creati dei paradossi. “Oggi i club si lamentano perché un giocatore vuole andare via e allo stesso tempo ne cercano altri in scadenza di contratto. Servirebe un modo per regolamentare e dare certezze, le società invece tengono duro e non vogliono spostarsi dalle regole esistenti”.
E così nell’attuale serie A il numero di stranieri è di circa il 60%, rispetto agli italiani. E’ dal 2006-07 che è stato effettuato il sorpasso rispetto ai calciatori nostrani, non solo grazie alla legge Bosman.